Il portico di San Luca

«Sovente, alle due di notte, rientrando nel mio alloggio, a Bologna, attraverso questi lunghi portici, l’anima esaltata da quei begli occhi che avevo appena visto, passando davanti a quei palazzi di cui, con le sue grandi ombre, la luna disegnava le masse, mi succedeva di fermarmi, oppresso dalla felicità, per dirmi: Com’è bello!».Così Stendhal, nel suo Viaggio in Italia, del lontano 1826, descrive la sublime bellezza del Portico di San Luca che conduce al Colle della Guardia, dove svetta il Santuario della Madonna. Tanta bellezza esiste ancora, ma forse lo sguardo avrebbe acquisito una luminosità mistica se egli avesse saputo quale preziosa reliquia del tempo era stata ritrovata cent’anni prima nelle fondamenta di quei lunghi portici: una piccola conchiglia fossile che racchiudeva ancora una goccia d’acqua del Diluvio Universale. Questa è la sua storia.

Negli anni Dieci del ‘700, durante la costruzione del famoso portico, l’esimio Giuseppe Monti, professore di Storia naturale nell’Istituto delle Scienze di Bologna, seguiva gli scavi con lo sguardo dello studioso.Le arcate, che mesmerizzavano l’anima notturna di Stendhal, furono iniziate nel 1674 e terminato negli anni Venti del secolo successivo; misurano 3796 metri e constano di 666 volute; un numero sul quale varrebbe la pena riflettere considerando che, nell’Apocalisse di Giovanni (13, 1-2), viene individuato come il «numero della Bestia che viene dal mare. Aveva dieci corna e sette teste, sulle corna dieci diademi e su ciascuna testa un titolo blasfemo. […] era simile a una pantera, con le zampe come quelle di un orso e la bocca come quella di un leone. Il drago le diede la sua forza, il suo trono e la sua potestà grande». Curiosa coincidenza cabalistica, dato che il suo ruolo apocalittico è analogo a quello delle acque nel Giudizio Universale.

Partendo dunque dall’Arco Bonaccorsi, presso la Porta Saragozza, gli archi conducono fino alla cima del Colle della Guardia; grazie ad essi si può arrivare fino alla chiesa con qualsiasi condizione atmosferica.

Durante gli sbancamenti il professore trovò un deposito fossilifero nel quale alcuni molluschi si erano silicizzati con calcedonio biancastro ed azzurrognolo. Il calcedonio è un minerale di quarzo che può prendere diverse colorazioni dando luogo a pietre come l’agata, il crisopazio, la corniola, l’eliotropio; tutte varietà di pietre dure ornamentali. In una di queste conchiglie, «testacei», come venivano definite al tempo, sigillata al suo interno da uno strato di agata, venne rinvenuta una bollosità ripiena di acqua; per Monti non vi era dubbio: si trattava di una goccia del Diluvio Universale. Com’era giunto a questa conclusione?

Il Museo Diluviano

«Dalle cose minime di Dio le grandi, e dalle visibili le invisibili»; questa citazione di Sant’Agostino è la chiave dell’affascinate dissertazione con la quale lo studioso presentò «questo raro fenomeno della natura». Siamo nella cornice accademica del Museum Diluvianum, il Museo Diluviano, fondato nel 1714 da Luigi Ferdinando Marsigli, oggi Museo Capellini, per raccogliere proprio le rocce e i fossili proventi dalla catastrofe biblica. In quegli anni, infatti, imperava nel mondo scientifico la «teoria diluvianista» che faceva derivare tutti i fossili delle conchiglie e dei pesci dalla grande sommersione biblica. Nessun dubbio, quindi, che si trattasse proprio di una goccia originata da quell’avvenimento epocale.

La teoria partiva da Tertulliano e Basilio, Padri della Chiesa che, nel quarto secolo, avevano segnalato la presenza di conchiglie marine sui monti e di alcuni pesci fossili in Libano. Erano stati i due apologeti a reputare queste «reliquie» residui del Diluvio Universale; da quel momento la «teoria diluvianista» aveva condizionato la Paleontologia e la Geologia sin verso la metà del XIX secolo.

Il dogma del Diluvio, e la conseguente teoria, dovuta all’interpretazione letterale dell’evento – avvenuto circa nel 6000 a.C. secondo i calcoli biblici – ebbero il loro apice scientifico dottrinale nel XVII secolo, quando anche scienziati illuminati come Stenone (1631-1687) e Scilla (1629-1700) dovettero piegarvisi per non incorrere nelle ire della Chiesa che, col processo a Galileo, nel 1633, ed ancor prima mandando al rogo Giordano Bruno a Campo dei Fiori, nel 1600, aveva dimostrato di non tollerare un palese contrasto tra fede e scienza, considerando eretica ogni spiegazione che contraddicesse le Sacre Scritture.

Per più di 1500 anni, dunque, tutti i fenomeni geologici vennero spiegati col Diluvio Universale e tutti i fossili studiati come resti di questa catastrofe divina. La sommersione biblica, durata 40 giorni e 40 notti, aveva portato le acque ad una altezza di 15 cubiti sopra la cima delle montagne, e così si erano mantenute per cinque lunazioni quando, a causa dei venti impetuosi, erano progressivamente scese. L’inondazione aveva sterminato tutte le forme di vita animali, tranne quelle protette nell’Arca: per questo i fossili vennero chiamati «resti antidiluviani», nome che evocava come un monito il ricordo di quella terribile punizione. I vegetali, invece, se l’erano cavata meglio, almeno a giudicare dal ramoscello di ulivo che la colomba aveva riportato a Noè.

Contro queste affermazioni pseudo scientifiche si leva, potente ma inascoltata, la voce di Leonardo da Vinci che, in un suo testo scrive in proposito: “Se tu dirai che li nichi (conchiglie) che per li confini d’Italia, lontano dalli mari, in tanta altezza si veggano alli nostri tempi, sia stato a causa del Diluvio che lì li lasciò, io ti rispondo che, credendo tu che tal Diluvio superasse il più alto monte di 7 cubiti, tali nichi dovevano restare sopra tali montagne, e non sì poco sopra la base dei monti”.

Nella prima metà del XVIII secolo le ulteriori scoperte paleontologiche e l’avanzamento dei mezzi di osservazione scientifica misero sotto tensione la «teoria diluvianista»; si cominciò a cercare di capire, ad esempio, da dove fosse venuta tutta quell’acqua e dove poi fosse andata a finire. Tra le numerose ipotesi quella più in voga affermava che fossero stati gli abissi marini sia a fornire le acque del Diluvio sia a smaltirle; altra ipotesi, che sottoponeva decisamente la scienza alla fede, era che, per volere divino, tutta l’aria si fosse trasmutata in acqua: in questo caso chissà quale miracolo aveva consentito a Noè ed ai suoi ospiti di respirare!

Una ulteriore questione riguardava le piante: com’erano sopravvissute? Il famoso gesuita Atanasio Kircher, che aveva assemblato una delle più impressionanti Wunderkammer dei tempi, esperto in tutto lo scibile umano, scrisse, ad esempio, un voluminoso libro sull’Arca elencando, oltre gli animali, anche i semi che presumibilmente Noè vi aveva caricato.

L’apogeo della «teoria diluvianista» si ebbe con la pubblicazione del libro di Woodward (1665-1728) Storia Naturale della Terra, in cui supponeva che il Diluvio avesse letteralmente sciolto la crosta terrestre e che poi, una volta ritiratesi le acque, il materiale in sospensione avesse ricomposto i suoi vari strati. Lo svizzero Scheuchzer, inscritto all’Istituto delle Scienze di Bologna – in cui la «teoria diluvianista» veniva propugnata con convinto sostegno – annunciò addirittura il ritrovamento di un «uomo fossile, testimone del Diluvio Universale»: il reperto fu anche raffigurato nelle Bibbie dell’epoca.

Scheuchzer descrisse il fossile credendo di vedervi il bacino e la colonna vertebrale di un uomo gigantesco; le sue dimensioni (circa 3 metri) facevano pensare ad uno dei «famosi giganti dei tempi antichi» di cui parla Genesi 6,4: “C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo – quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi”. Per questo lo battezzò «Homo diluvii testis» (uomo testimone del diluvio); il reperto è attualmente esposto presso il Museo Teylers ad Haarlem in Olanda. Solo quasi cento anni dopo si scoprirà che si trattava in realtà di una salamandra gigante.

Nei decenni seguenti, con la scoperta dei grandi fossili, prima con Lamarck (1744-1829) che introdusse il concetto di mutazione delle specie, e poi definitivamente con l’evoluzionismo di Darwin, il diluvianesimo tramonta progressivamente sia negli ambienti scientifici, sia come dogma della chiesa, che passa ad una interpretazione tendenzialmente metaforica dell’evento biblico.

Altri Diluvi

La simbologia dell’Antico Testamento è originariamente legata alla grande immagine archetipica dell’acqua come inizio, dissoluzione e rigenerazione di tutte le cose. Nella prospettiva testamentaria le acque sono il simbolo potente dell’alleanza tra l’umanità e il Dio onnipotente e vendicativo: Jahve, che punisce i malvagi e salva gli eletti «lavando» i loro peccati col Diluvio, affinché il ciclo della vita possa ricominciare il suo corso.

«Le acque simboleggiano la somma universale delle virtualità; esse sono fons etorigo, il serbatoio di tutte le possibilità di esistenza; esse precedono tutte le forme e fanno da supporto ad ogni creazione. L’esemplare di ogni ricreazione è l’isola, la quale scaturisce o permane in mezzo alle onde. L’immersione nelle acque simboleggia la regressione nel preformale, il reintegrare la modalità indifferenziata della preesistenza. L’emersione ripete il gesto cosmogonico della manifestazione formale; l’immersione equivale ad una dissoluzione delle forme». Così Mircea Eliade sintetizza la forza archetipica del Diluvio nel suo Immagini e Simboli.

In questa prospettiva l’Arca di Noè è l’«isola in mezzo alle onde» di cui parla lo studioso rumeno, il punto di salvaguardia della vita a riparo della grande sommersione. «Arca», infatti, in latino, significa cassa o scrigno: qualcosa che preserva.

E il Diluvio biblico, lo sappiamo, è solo uno dei cataclismi acquatici descritti nella storia mitica dell’umanità, così come l’Arca è solo una delle «isole» salvifiche. Nell’antico Egitto, ad esempio, la divinità che lega le acque alla rigenerazione vitale è Osiride. Come ci narra Plutarco in Iside ed Osiride, egli viene ucciso dall’invidioso fratello Seth con il trucco di una bara preziosa fatta appositamente per lui: appena Osiride vi si adagia il coperchio viene chiuso e sigillato. La bara viene poi scagliata nella Bocca Tanitica che collega la laguna di Al Manzilah presso la città sacra di Tanis, con il Mediterraneo; si tratta di una delle sette bocche in cui si divide il delta del Nilo.

Questo atto simboleggia le annuali inondazioni del Nilo, un diluvio ben conosciuto dagli antichi egizi che, nel mito di Osiride, poi ricomposto dall’amata sorella-amante Iside, vedono la bara sigillata come analogo simbolico dell’Arca biblica. Un luogo che, al tempo della distruzione, preserva la singola vita attraverso una sorta di animazione sospesa, facendole così attraversare le acque minacciose dalle quali, in seguito, tornerà la Vita. Gli egiziani sostenevano che diluvi catastrofici si susseguissero ciclicamente ogni 120.000 e 360.000 anni e, esattamente come quello biblico, uccidessero ogni forma di esistenza e spianassero le montagne.

Anche i cinesi tramandano tradizioni di inondazioni gigantesche, provocate dal Fiume Giallo, mentre, negli scavi di Ninive nella seconda metà dell’800, furono rinvenute 24.000 tavolette a caratteri cuneiformi: la cosiddetta «biblioteca di Re Assurbanipal», che narravano, tra le altre cose, il Diluvio Universale nelle stesse modalità di quello biblico, Arca compresa. Qui l’eletto si chiama Hasis-Adra, un umile abitante di un villaggio sulle rive dell’Eufrate. Avvertito della catastrofe da Ea, il dio del mare, costruisce la sua arca che navigherà sulle acque per sette giorni e sette notti prima di approdare al monte Nizir, l’Ararat mesopotamico. Anche in questa storia, evidentemente l’antecedente di quella biblica, compaiono dei volatili nel ruolo di “verificatori dell’agibilità terracquea”: corvo, colomba e rondine.

Più in generale, il ruolo della Grande Acqua e della sommersione e riemersione è centrale in tutti i miti cosmogonici sia in Oriente che in Occidente; quelli dell’antica Grecia fanno cominciare la Vita dalle acque: nel mito pelasgico della creazione,all’inizio Eurinome, dea di tutte le Cose, emerge nuda dal Caos e non trovando nulla di solido per posarvi i piedi, divide il mare dal cielo. Rimasta incinta del gran serpente Ofione che circonda il Mondo con le acque delle sue spire, depone l’Uovo Universale, covato dal serpente oceanico sino alla nascita del Mondo.

Nel mito orfico della creazione, invece, Dioniso rappresenta l’unità totale del mondo disperso, variegato, particolarizzato, incostante, sul quale è destinato ad estendere il suo potere. Per adempiere a questo compito, unico tra tutti gli dei greci, egli pure, come Osiride, viene fatto a pezzi, bollito in un calderone, mangiato dai Titani e poi ricomposto a partire dal suo cuore-fallo. Qui l’Arca è il calderone, «isola» sacrificale come lo è ogni altare. Dunque il ciclo dionisiaco appare come un «riassunto» della simbologia diluviana: la morte per sommersione, la conseguente dissoluzione della vita letteralmente «fatta a pezzi» e poi la ricomposizione delle membra sparse a partire dal cuore-fallo, affinché la Zoè, il Principio vitale indifferenziato, dia un nuovo inizio alle sue bios, le vite caratterizzate.

Anche gli antichi Celti avevano un calderone magico, il «calderone della rinascita» in cui i guerrieri morti venivano immersi per poi tornare a combattere.Si tratta del cosiddetto Calderone di Gundestrup, un manufatto celtico datato alla fine del II secolo a.C., nella tarda Età del ferro, e ritrovato il 28 maggio 1891 in una torbiera dell’Himmerland, nello Jutland, nel nord della Danimarca.

La goccia del Giudizio Universale

E allora vediamo con quali parole Giuseppe Monti presentò la meravigliosa scoperta e la spiegazione che ne diede: “In qual luogo poi, e per quale ragione avvenne che noi scoprissimo questo raro fenomeno della natura ascoltate in breve. Quando molti anni fa cominciarono ad edificare un grande e bellissimo portico attraverso il quale si apre il passaggio per quelli che vogliono venerare la Vergine Madre di Dio… le sue fondamenta parecchie volte presentavano a noi delle conchiglie, da cui capimmo che il monte abbondava di spoglie marine…”. Monti spiega a questo punto come l’agata sia entrata all’interno delle conchiglie in forma fluida e le abbia, in questo modo, sigillate: “Se qualcosa posso io stesso giudicare è che la materia dell’agata, quando entrò nei testacei, era fluida, né in altro modo aveva potuto riempire gli anfratti più stretti, nei quali, come vedete, si solidificò nei più sottili apici”.

Ecco ora Monti passare all’esposizione del ritrovamento straordinario: “Per tale e tanto grande singolarità si distinse, che non dubito che sia sufficiente ad attirare l’attenzione di numerosi sapienti. Essendoci arrisa la fortuna avvenne che, nel monte di San Luca, ci capitasse tra le mani questo, nulla di simile al quale finora fu visto, né crediamo che nessuno troverà forse in seguito. Talvolta, non so a chi, capitò di imbattersi in cristalli, nei nostri monti, ed altrove, le cavità dei quali contenevano gocce d’acqua, ma chi potrebbe credere che si dovesse trovare un fenomeno naturale di tal fatta nelle anguste volute di una conchiglia piena di agata? Tuttavia ciò oggi è esposto a voi”.

In conclusione lo studioso ribadisce l’origine diluviana della goccia e di tutti i fossili trovati sulla collina: “Inoltre, perché non rimanga nessuna ragione di dubitare di questa cosa, c’è da aggiungere fra le altre osservazioni sui fossili che abbiamo esaminato… che per nessuna altra ragione si possono spigare le mutazioni di luogo di qualsiasi di queste cose, se non si ricorre a quella fatale inondazione di tutto il mondo di cui ci informano le Sacre Scritture. A.M.D.G.” (traduzione del prof. Carlo Sarti).

Ad Maiorem Dei Gloriam, così termina la trattazione sulla goccia diluviana.

La «reliquia» del Diluvio Universale, originariamente custodita presso il Museo Geologico e Paleontologico Giovanni Capellini in Bologna è ora esposta al Museo Poggi; il tempo, grande scultore, si è occupato di far evaporare quel tesoro, del quale resta ora solo un evocativo calco in gesso dell’interno della conchiglia, in cui ben si vede il vuoto occupato in origine dalla goccia. Sull’impronta è incisa la data del ritrovamento: adì 27 dicembre 1720.