«Partito dei padroni», «Servo dei padroni»: si tratta di espressioni che hanno accompagnato per lungo tempo l’agire politico/sindacale della grande maggioranza delle forme organizzate delle classi subalterne sia nei momenti di resistenza, sia in quelli (pochi) favorevoli all’offensiva. In genere quasi tutte le espressioni utilizzate come strumenti di battaglia, nel contesto di una lotta di classe esplicita, si caratterizzano per il forte valore emotivo e l’impreciso valore denotativo. Non che i «padroni delle ferriere» non fossero chiaramente individuabili, ma neppure quando essi formavano la parte più evidente del dominio del capitale, tale dominio si esauriva in quella forma.

Nei periodi in cui, però, la tipologia del «padrone delle ferriere» era quella più immediatamente visibile anche i «partiti dei padroni», i «servi dei padroni» si trovavano ad avere una configurazione precisa nella catena del dominio. Si configuravano come strumenti politici di servizio (servi appunto) rispetto a strategie necessarie che avevano come input la sfera del potere economico. Il modello interpretativo rimaneva forse approssimativo, ma non era certamente staccato dalla realtà.

[do action=”citazione”]Oggi il termine «padrone» è scomparso dal lessico politico ed anche da quello sindacale.[/do]

Nello stesso tempo i modi del «dominio» sono diventati sempre più pervasivi. Un «dominio» senza dominus (padrone) è, manifestamente, una inconcepibile contraddizione. Il fatto che i padroni siano scomparsi dall’uso linguistico e siano invece ben presenti nella materialità dei rapporti sociali è un’ulteriore prova di «dominanza ideologica».

Per la verità uno dei massimi linguisti oggi viventi, Noam Chomsky, ha intitolato I padroni dell’umanità (The masters of Mankind) un suo recentissimo libro. Egli usa il termine come elemento coessenziale alla categoria di «dominio», proprio come aveva fatto anche Adam Smith, quando una scienza economica agli inizi era ancora strumento di conoscenza reale.

Il termine, inoltre, è ancora molto usato nell’ambito della scienza sociale critica, ed invece assente dalla sfera politica. Ed appunto qui è il nodo: si può ancora parlare di una sfera politica «serva dei padroni»?
Penso che sia necessario riflettere di nuovo sull’analisi che Michel Foucault, in un libro di più di quarant’anni fa (Microfisica del potere), esercitava sulle forme di esercizio del potere nell’ambito del modo di produzione capitalistico. L’analisi di Foucault, si muove all’interno delle organizzazioni reticolari tramite le quali il potere si distribuisce in tutto il corpo sociale. Su questo aspetto, la «microfisica» appunto, si è concentrata l’attenzione della maggior parte della pubblicistica. Nello stesso tempo, però, lo studioso francese sottolinea come le caratteristiche specifiche di quel meccanismo di dominio reticolare siano la conseguenza di un modo di produzione, di «un sistema economico che favorisce l’accumulazione di capitale ed un sistema di potere che comanda l’accumulazione degli uomini». E più recentemente il sociologo tedesco Ulrich Beck ha sostenuto che è nella «logica del capitale» la ricerca della propria legittimazione mediante non tanto «l’economicizzazione della politica, ma la politicizzazione dell’economia».

Nell’attuale fase di accumulazione nel «partito dei padroni», cioè la «parte» che esercita il dominio, sia pure «reticolare», sull’insieme del corpo sociale, la distinzione tra economia e politica è esclusivamente funzionale. Per fare solo un esempio, il settore industriale dei combustibili fossili, secondo uno studio del Fondo Monetario internazionale, riceve contributi pubblici, cioè politici, che assommano a circa cinquemila miliardi di dollari l’anno. D’altra parte se pensiamo al grado di finanziarizzazione del sistema economico ed ai livelli di sostegno del sistema pubblico, cioè politico, di cui ha goduto negli ultimi anni, un livello tale che ha indotto numerosi analisti a parlare più di «capitalismo di stato» che della favola del «libero mercato», la compenetrazione tra le due sfere risulta essere dato di fatto difficilmente controvertibile. E qui ci riferiamo unicamente ad iniezioni di denaro, ma la dimensione politica forse più importante è la costruzione stessa, del tutto politica, di quella che chiamiamo «globalizzazione» e che altro non è che cornice, ed in gran parte anche quadro, dell’attuale fase di accumulazione del capitale.

Quindi quando noi parliamo di «partito dei padroni» con riferimento alla sfera politica, dobbiamo avere ben chiaro che ci riferiamo a forze attivamente e convintamente compartecipi tanto della costruzione che del radicamento delle logiche di tale fase. In Italia lo spazio di cui stiamo parlando è molto affollato, ma la forza più moderna, coerente, dotata di capacità e di possibilità decisionale è il Pd, che attualmente si identifica con il suo dominus primo: Matteo Renzi.

Il processo di emancipazione dei subalterni si è svolto attraverso l’ampliamento progressivo dei diritti, che significa ampliamento progressivo della democrazia, consustanziale al progetto di trasformazione della plebe in popolo. Il «partito dei padroni» è il protagonista del processo inverso. Tutti gli atti fondamentali del governo Renzi si iscrivono con perfetta connessione in tale svolgimento.

Il «partito dei padroni» non rappresenta né «serve» i padroni. I suoi dirigenti sono «padroni». Naturalmente in un meccanismo di diffusione reticolare del dominio si è «padroni» a livello diverso. Il diverso livello, le amministrazioni locali ad esempio, e nel loro ambito la diversità dei comuni e delle regioni, non comporta nessuna fuoriuscita dalle logiche dominanti del «partito». Perché la diffusione reticolare è del tutto interna a processi che hanno ormai una lunga storia ed un radicato sistema di relazioni tra le diverse funzioni dell’esercizio del «dominio». Al massimo sono possibili aggiustamenti tattici e di posizionamento.

La costruzione di una forza politica antitetica ai modi dell’accumulazione in corso, può reggere l’alleanza con la dimensione locale del «partito dei padroni»?