L’avevamo lasciata non molti mesi fa, Constanza Macras, alle prese con i «fantasmi» di un gruppo di acrobati cinesi incontrato nella provincia meridionale di Guangdong, in realtà tre ragazzine costrette fin da bambine sulla strada di una atroce disciplina. La ritroviamo alla testa di uno scatenatissimo ensemble di danzatori sudafricani, nello spettacolo presentato sul palcoscenico del Teatro comunale di Ferrara. E quanto là, in The ghosts, il sentimento di angoscia che suscitava lo spettacolo prevaleva emotivamente sulle abilità delle interpreti, tanto qui l’energia fisica e il piacere profusi nel ballo hanno facilmente la meglio sugli ipotetici riflessi post-coloniali che vien da cogliere in On fire. The invention of tradition.

Un uomo si fa avanti con una divisa da tennista d’altri tempi che spiega i suoi ampi gesti circolari; gli altri seguono, un gruppo assai variopinto che vedremo intrecciare hip hop e danze zulu. Un canto si sostituisce ai rumori naturali uditi in apertura, la pioggia, uno stormo di uccelli. La prima cosa che viene da osservare con curiosità è l’assenza di qualsiasi scenografia; è infatti la prima volta che succede nel mondo di solito assai costruito di Constanza Macras. Soltanto un grande rettangolo bianco di carta a copertura del palco, che riflette la luce e verrà poi strappato e accartocciato da un lato. Come a voler lasciare spazio libero ai danzatori. Una batteria e una fila di tamburi sul fondo, contro la parete occupata quasi per intero da uno schermo cinematografico, sembrano mescolare anche sul piano sonoro le due comunità qui riunite, quella incontrata a Johannesburg e quella venuta da Berlino con l’artefice. Sullo schermo appare un uomo con le stampelle che avanza faticosamente su un terreno brullo, e lo ritroveremo fra gli interpreti, tutti in qualche modo capaci di imporre un poco alla volta un proprio volto individuale partendo da un oggetto, un gesto, un colore. Poi sono subito le percussioni a prendere il sopravvento, anche se qua o là appaiono un brano di Bach o un’aria del Rigoletto però distorta da un cambio di velocità. Perché alla voracità della propria cultura visiva Macras non rinuncia certo. Che non è adesione a un tardivo spirito del tempo post-moderno ma presa d’atto della globalizzazione dell’immaginario, dell’esplosiva fusione che si produce ogni volta che mondi un tempo lontani vengono a contatto.

Quante volte si è detto, inevitabilmente, che ogni spettacolo di Constanza Macras prende occasione da un viaggio. Chi segue fin dagli inizi la regista-coreografa argentina, e sono ormai una quindicina d’anni, è stato condotto dal quartiere berlinese di Scratch Neukölln, approdo dell’immigrazione turca, alla delirante India bollywoodiana dello strepitoso Big in Bombay, fino allo squarcio aperto con la carovana Rom di Open for everything in un universo parallelo che sta dietro l’angolo delle nostre città.

Qui semmai in qualche momento sembra fare un passo di lato, lasciando che lo scatenamento del ballo prenda il sopravvento sul riconoscibile gesto coreografico della sua compagnia Dorky Park. Ma è un momento, appunto. Lo spaesamento con cui Macras obbliga a confrontarci passa sempre attraverso la messinscena di un universo caotico e disturbato, allegramente sensuale, fra continue accelerazioni e rallentamenti.

On fire, dice il titolo. Ma che cosa brucia? Quando ormai pensiamo che lo spettacolo abbia trovato la sua dimensione, una viene fuori a dire: il riscaldamento è finito (è la stupenda Fernanda Farah fin lì confinata alla batteria). Insomma, lo spettacolo dovrebbe cominciare adesso.

Una coproduzione internazionale, addirittura. Ma non appena loro, i danzatori sudafricani, provano i loro passi, lei urla: stop. Non è quello che si immagina. Perché anche la tradizione può essere un’invenzione. Come i grandi ritratti dei danzatori realizzati da Ayana V. Jackson sul modello degli scatti fotografici dell’epoca coloniale. È questo il tema che sta di fronte a Macras. Una rappresentazione dell’altro che si traduce in una cancellazione del passato non meno escludente della segregazione. Come nel caso dei ragazzini di Scratch Neukölln, non sappiamo chi sono e da dove vengono questi uomini e queste donne. Ma se si vuole un nuovo inizio, la domanda bisogna porsela.