Sulle note di Marvin Gaye e Mahalia Jackson migliaia di persone hanno sfilato per le strade di Washington per reclamare giustizia per i giovani neri assassinate dalla polizia e la fine del razzismo endemico nelle forze dell’ordine. La Justice for All March è stata il culmine del nuovo movimento per i diritti civili cresciuto in seguito ai fatti di Ferguson, soprattutto dopo che il gran giurì ha prosciolto l’agente responsabile della morte di Michael Brown nel Missouri e poi il poliziotto che ha strangolato un altro ragazzo afroamericano, Eric Garner, a Staten Island.

Dopo quasi un mese di proteste in centinaia di città americane, la manifestazione ha riunito nella capitale, sotto le finestre del Congresso e della Casa bianca, le istanze di un movimento nazionale che non ha precedenti negli ultimi decenni. A poco più di un anno dal cinquantenario della celebre march in Washington di Martin Luther King, la Marcia ha inevitabilmente evocato il movimento dei padri e dei nonni di molti dei presenti. «È un movimento intergenerazionale», ha sottolineato dal palco Joe Madison, storica personalità del movimento di Washington Dc, «quelli di noi che hanno ormai i capelli grigi sono fieri di questi ragazzi. Siete voi i John Lewis di oggi» riferendosi al giovane militante di Sncc (student nonviolent coordinating committee) che negli anni 60 lottò a fianco di Martin Luther King a Selma e altrove, prima di sedere nel Congresso per 40 anni. Nella folla predominantemente afroamericana, molte le foto di King, di Mandela ma anche di Malcolm X, oltre a quelle di numerose vittime delle tragedie causate dalla convergenza di razzismo e fatale vocazione violenta della polizia – una «tolleranza zero» pericolosa per ogni cittadino ma che statisticamente lo è 17 volte di più per i cittadini neri.

La manifestazione è stata coordinata dal National Action Network del «reverendo militante» al Sharpton. «Non abbiamo cominciato noi il problema. Noi non abbiamo sparato o soffocato nessuno, non siamo noi il problema. Non siamo anti polizia, siamo anti brutalità. Vogliamo un intervento federale per estirpare il vero problema una volta per tutte», ha detto Sharpton che negli ultimi mesi è stato consigliere legale, politico e «spirituale» delle famiglie dei ragazzi uccisi. Ieri sul palco con lui c’erano anche i famigliari di Brown, con una delegazione di 400 manifestanti venuti da Ferguson, quelli di Eric Garner arrivati da New York e di Tamir Rice, il dodicenne falciato dalle pallottole dei poliziotti a Cleveland. «God gave me little light and I’m gonna let it shine» ha scandito Sharpton invocando con le strofe dello spiritual di Harry Dixon la necessità di fare luce sulle malefatte della polizia perché «solo la luce fa correre gli scarafaggi». Presenti a Washington, accanto a personalità come Spike Lee, anche i genitori di Amadou Diallo e Trayvon Martin, altri due casi simbolo della violenza razzista. Il primo era un immigrato africano ucciso dalla polizia a New York nel 1999, il secondo un ragazzo di 17 anni ammazzato da un vigilante, anche lui prosciolto. «I nostri figli oggi sono qui. Voi li avete riportati qui», ha detto dal palco Gwen Carr, la madre di Eric Garner. Leslie McSpadden, la madre di Michael Brown si è rivolta alla folla: «Siamo un mare di persone, se non vedono questo oceano allora non so cosa dobbiamo fare. Grazie di essermi stati vicini». Le sue parole sono state accolte da un lungo coro di «Hands up don’t shoot» e «I Can’t breathe», gli slogan diventati simbolo del movimento. Che il sindaco di Newark, Ross Baraka, ha spiegato così: «Diciamo ‘mani in alto’ e non ‘riusciamo a respirare’ non solo per evocare le ultime parole di Eric Garner, ma perché stiamo collettivamente soffocando sotto il peso di un’ingiustizia che equivale a un nuovo Jim Crow», ricordando il sistema di segregazione istituzionale contro cui si battè il movimento degli anni 60. «A chi mi dice ‘l’America ha fatto molti passi in avanti’, io rispondo: non abbastanza!”», ha concluso.

Sul palco ieri anche Levar Jones, una rara eccezione alla triste regola, il ragazzo venne fermato da un agente in South Carolina che gli sparò numerosi colpi a bruciapelo mente tentava di estrarre la patente dal cruscotto. Jones è sopravvissuto e ieri ha fatto appello affinché «quando tornate a casa non smettete di lottare». Gli ha fatto eco il reverendo John Richardson che ha esortato: «Ora dobbiamo passare dalla contestazione alla soluzione, dobbiamo riformare ma anche trasformare idee e comportamenti». La marcia di King nell’agosto del 1963 non fu la conclusione della sua protesta, molti degli obbiettivi del movimento furono ottenuti solo dopo anni di ulteriore mobilitazione e di lotta. Ieri a Washington c’era la consapevolezza che anche oggi molto rimane da fare per cominciare a cambiare radicalmente le cose.