Che i leader politici, e massimamente i capi di governo, debbano essere considerati responsabili delle loro azioni è un principio della cui urgenza l’attualità offre riprove quotidiane, stretti come siamo tra le minacce ora farsesche ora sinistre di una nuova guerra nucleare e più diffusi esempi di irresponsabilità politica tutta interna ai confini nazionali.

IN QUESTO SCENARIO l’analisi svolta da Daniele Archibugi e Alice Pease in Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali (Castelvecchi, pp. 334, euro 25) prende le mosse dal piano giuridico per dirci qualcosa di importante sui limiti e le potenzialità di un controllo dell’azione dei governi da parte di un’opinione pubblica idealmente globale.
Il libro si presenta innanzitutto come una disamina critica, una sorta di bilancio provvisorio, dell’operato della giustizia penale internazionale per come essa ha dato prova di sé negli ultimi trent’anni, ovvero da quando, sfuggendo almeno in parte al diretto controllo dei governi nazionali, l’azione penale contro determinati crimini si è di fatto globalizzata.

La tesi che i due autori argomentano in modo convincente è netta: nonostante le buone intenzioni (assumendone la sincerità), la giustizia penale contemporanea ha finito per essere – o forse ha continuato a essere – uno strumento politico di cui gli Stati più potenti si sono inderogabilmente serviti per regolare i conti con i propri nemici, con ciò condizionando anche alleati e potenziali oppositori. Il limite più evidente di quella che dunque appare a tutti gli effetti una giustizia politicizzata è lo stesso che in buona parte compromise i risultati ottenuti con il processo di Norimberga: oggi come allora non si può non rilevare la più che dubbia indipendenza del potere giudiziario da governi nazionali che di fatto finanziano e nominano gli organi giudicanti.
Si tratta, insomma, della vecchia – ma non per questo meno attuale – questione della giustizia esercitata dai vincitori nei confronti dei vinti, un fantasma di cui non solo le aule dei tribunali non riescono evidentemente a liberarsi.

LA PARTE CENTRALE del libro è dedicata a una scrupolosa disamina di alcuni tra i più rilevanti procedimenti penali degli ultimi anni: da Pinochet a Milosevic, fino ai recenti e dibattuti casi di Saddam Hussein e Omar al-Bashir.
Sulla base di tali analisi, gli autori giungono alla realistica conclusione che un esercizio realmente imparziale della giustizia penale internazionale incontra una contraddizione probabilmente insanabile nel fatto che i governi tenderanno sempre a sottrarsi a quegli strumenti di controllo penale sul loro stesso operato che si rivelano tuttavia necessari per il darsi di una credibile, e dunque efficace, giustizia penale globale.
Non solo: si sottolinea opportunamente come sia oggi in atto un tentativo di indirizzare i tribunali internazionali verso questioni e problemi tali da non suscitare forti controversie, quali i crimini contro il patrimonio archeologico e ambientale, o più semplicemente perseguendo figure di secondo piano (quando non politicamente irrilevanti).
Alla questione capitale di una giustizia dimidiata e coartata si somma dunque quella di una giustizia resa finanche irrilevante, mero complemento di arredo di una politica internazionale che appare sempre più determinata da quanto deciso all’interno di una ristretta cerchia di decisori globali, non necessariamente di carattere pubblico. E tuttavia gli autori non intendono lasciare la giustizia penale internazionale al suo destino. Se è vero, infatti, che ben poche sono le speranze di un inveramento dei suoi fini per opera dei governi, ciò non toglie che nuovi attori possano addivenire a un mutamento radicale nei modi del suo esercizio, innanzitutto nel senso di una reale universalità e imparzialità dell’azione penale.

I NUOVI ATTORI chiamati a una svolta in tal senso vengono individuati negli stessi cittadini, coadiuvati da organizzazioni indipendenti e gruppi di pressione di diversa natura. Gli autori elogiano i tribunali d’opinione, come quelli intentati da Bertrand Russell, Jean-Paul Sartre e Lelio Basso per i crimini di guerra commessi in Vietnam e dalla società civile globale per la guerra in Iraq. Tribunali senza potere coercitivo se non quello di denunciare il crimine della guerra prima ancora dei crimini di guerra.
Con la stessa schiettezza e onestà di cui dà prova il libro, si potrebbe dubitare del fatto che questa sorta di lobbismo umanitario possa conseguire risultati significativi. E tuttavia è un fatto parimenti rilevante che se si escludono gli Stati per i motivi detti, non restano molte alternative. La strada è dunque stretta, ma vale forse la pena provare a percorrerla.