Lula è stato escluso dalle elezioni presidenziali brasiliane del 7 ottobre. La sentenza del Tribunale supremo elettorale – sei membri contro uno – venerdì notte ha confermato quanto si temeva. Luiz Inácio da Silva, il candidato più popolare – circa il 38% delle intenzioni di voto contro il 18% del secondo -, non può partecipare alle presidenziali perché «condannato (a 12 anni) in seconda istanza per corruzione e lavaggio di denaro».

Come i precedenti anche questo è un giudizio nettamente politico. Che nega a Lula il diritto, ribadito due settimane fa dalle Nazioni unite, di poter concorrere alla carica di presidente fino a quando la giustizia si sia espressa con una condanna definitiva.

Restano infatti all’ex presidente un appello di fronte al Superior tribunal del Justicia (terzo grado) e due alla Corte suprema (quarto grado).
Che i giudici di Lava Jato e i ministri del governo golpista di Temer fossero intenzionati ad uccidere politicamente Lula usando una magistratura assai poco indipendente era chiaro da mesi. Da quando lo scorso aprile l’ex presidente era stato condannato in prima istanza usando alcuni «pentiti» e senza prove concrete.

L’ultima sentenza è come una cappa di cemento fatta colare sulla prigione della Polizia federale di Curitiba dove l’ex presidente Lula è incarcerato: non potrà infatti partecipare a dibattiti, né essere protagonista diretto in spot di propaganda elettorale, né si potranno affiggere manifesti elettorali con la sua immagine.

L’accelerazione voluta dalla ministra Rosa Weber, presidente del Tribunale supremo elettorale (Tse), mira a impedire che Lula possa fare campagna elettorale fino al 17 settembre, ultima data nella quale il partito dell’ex presidente, Partito dei lavoratori (Pt), possa cambiare candidato. E «trasferire» i voti di Lula al suo numero due, l’ex sindaco di San Paolo Fernando Haddad (il quale dovrebbe concorrere alla presidenza assieme alla candidata del Pc brasiliano, Manuela D’Avila). Guadagnare tempo è essenziale per il Pt: infatti Haddad non riesce a brillare di luce propria e fino ad oggi solo una piccola parte dei potenziali elettori di Lula si è detta disposta a votare per l’ex sindaco una volta che Lula fosse stato estromesso. Il Tse ha dato dieci giorni di tempo al Partito dei lavoratori per cambiare candidato.

Il Pt e Lula si trovano dunque di fronte a una scelta drammatica. Ieri la tv pubblica brasiliana – l’unica autorizzata per legge – ha iniziato a mettere in onda pubblicità elettorale gratuita in orari di massimo ascolto. E Lula non potrà utilizzare il tempo che gli spetta come candidato, a meno che non violi il verdetto del Tse in attesa di un pronunciamento del Supremo tribunale de justicia, rischiando così di vedersi annullare spazi ed eventuali voti. La dirigenza del Pt dovrà dunque decidere tra due linee entrambe difficili e deboli: se cambiare subito – già da domani – candidato e gettare tutto il suo peso organizzativo sulla coppia Haddad-D´Avila, indebolendo dunque le possibilità che Lula possa vincere il ricorso al Tribunale superiore di giustizia. O se difendere fino in fondo la possibilità di usare l’immagine di Lula – magari in spot registrati prima della sua condanna – per «tirare la volata» ad Haddad, ma agendo al limite della legalità e dando una chiara dimostrazione di debolezza politica.

La drammatica contrapposizione tra stato di diritto – l’applicazione della legge de Ficha limpia (Fedina penale pulita) che impedisce di candidarsi a persone condannate in seconda istanza per una serie di reati, tra i quali corruzione – e democrazia – il popolo ha diritto di scegliere il proprio leader in assenza di condanna definitiva- che la destra e i poteri forti (anche internazionali) usano contro la sinistra brasiliana data da due anni. Il 31 agosto del 2016 infatti fu deciso l’impeachment della presidente (del partito dei lavoratori) Dilma Roussef, un golpe blando politico.

L’uso di una giustizia controllata dai poteri forti (sostenuti dalla Casa bianca) non si limita al Brasile. Pochi giorni fa al movimento «Colombia umana» che aveva sostenuto alle presidenziali colombiane il candidato progressista Gustavo Petro (8 milioni di voti) è stato negato dalla magistratura di Bogotà il diritto di costituirsi in partito politico, ovviamente di opposizione al presidente eletto di destra Iván Duque. In Ecuador la battaglia politica tra l’ex presidente Rafael Correa e l’attuale Lenín Moreno (che dopo l’elezione ha cambiato linea politica rispetto al suo predecessore e mentore, tanto da aver deciso l’uscita dell’Ecuador dall’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America) è combattuta con l’uso della magistratura che ha ordinato prima l’arresto preventivo di Correa (corruzione), poi sta entrando nella disputa per la leadership del potenziale partito di opposizione, Movimiento acuerdo nacional.