Può finire l’epoca degli sgomberi a Roma? La nuova amministrazione sarà capace di dare valore alle esperienze sociali e politiche che in questi spazi sono nate e cresciute di recente? Potremmo liberarci dal calendario dei prossimi allarmi in cui svegliarci la mattina alle cinque per andare a difendere l’ennesimo Nuovo cinema Palazzo o Rialto dal sequestro?

Per chi ha fatto politica in città l’incubo degli ultimi anni è stata la delibera 140.

Nell’aprile 2015 la giunta Marino approva la delibera dedicata al «patrimonio indisponibile in concessione»: lo scopo è quello di riordinare una situazione che dagli anni Ottanta e Novanta non era stata affrontata e normata in modo sistemico e di farlo considerando anche «la redditività del patrimonio», censendo i canoni d’affitto.

L’effetto è quello di una mannaia che cade in modo violento sulla realtà pulviscolare e disomogenea dell’associazionismo, delle occupazioni, della militanza e della politica del basso. La volontà di fare ordine si trasforma presto in repressione amministrativa: multe di centinaia di migliaia di euro vengono comminate a attivisti che tengono in piedi scuole popolari, corsi di italiano per stranieri, sportelli giuridici, attività culturali a prezzi accessibili… È un disastro. Molte persone si allontanano dalla politica, molti presidi democratici si svuotano, Roma subisce una desertificazione persino peggiore di quella che affronta un Paese affaticato dall’avanzare dei populismi e il ritorno dei fascismi.

Ma c’è chi resiste e prova a organizzarsi, salvaguardando questi spazi e elaborando modelli anche teorici che siano riproducibili. Non è per niente facile: nel frattempo la città si impoverisce, una pandemia riduce al lumicino la possibilità di fare politica dal basso, molte comunità si sfilacciano, molti progetti si interrompono e si perdono, la Corte dei Conti non lascia scampo ai soggetti morosi.

E arriviamo a oggi; con la nuova giunta capitolina la questione degli spazi sociali e del patrimonio indisponibile e più in generale della città pubblica è di nuovo al centro del dibattito. Alle 18 del 14 dicembre allo Spin time ci sarà un incontro promosso dalla rete «Solid Roma» per capire come superare la delibera 140.

La proposta è di costruire insieme con militanti, associazioni e istituzioni (in particolare l’assessore al patrimonio Tobia Zevi e quello alla partecipazione Andrea Catarci) una nuova delibera che superi l’idea che questo tipo di patrimonio debba produrre reddito economico con lo stesso standard di altri spazi magari commerciali o di rendite.

C’è già una bozza su cui si sta lavorando e un passaggio è particolarmente significativo: «Piuttosto che determinare un canone da applicare in maniera rigida – canone commerciale diminuito o canone sociale – sarebbe invece opportuno applicare una valutazione d’impatto sociale e ambientale degli interventi e dei progetti realizzati e da realizzare. L’integrazione dell’impatto nelle scelte di gestione strategica del patrimonio prevede che il canone sia commisurato sia alla capacità di generazione di valore economico da parte del soggetto che ne ottiene l’affidamento, sia alla capacità di generare impatti sociali e ambientali positivi. La misurazione dell’impatto sociale positivo, infatti, può essere opportunamente tradotta nel suo equivalente finanziario, adottando diversi criteri e indicatori ormai diffusi».

In parole povere: il valore sociale corrisponderebbe a un risparmio della spesa pubblica e da questo calcolo si stabilirebbe un nuovo formula per la gestione di questi spazi.

L’intenzione è ovviamente lodevole, ma il rischio di non risolvere la questione o di peggiorarla è concreto. Molti di questi luoghi hanno un valore sociale in quanto sono spazi politici, di educazione alla democrazia, e anche al conflitto – sembrano rispondere esattamente a quella funzione che viene richiamata nell’articolo 3 della Costituzione: si occupano di rimuovere gli ostacoli che impediscono «l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Dargli una legittimità anche giuridica in base a un valore sociale (e quindi economico) rischia di perpetuare un equivoco e un errore ormai quarantennale: di sussumere la dimensione politica in quella sociale invece di fare il contrario. Occorre invece riconoscere il bisogno per Roma e per le città in generale di spazi di confronto politico, con orgoglio e con la capacità di vera innovazione.