Nel romanzo Gli ultimi bambini di Tokyo, in arrivo in Italia a ottobre (per Atmosphere), la scrittrice Yoko Tawada immagina un Giappone postatomico dove gli animali sono completamente scomparsi – fatta eccezione per ragni, corvi, cani «in affitto» e gatti morti. In questo scenario, in cui il paese vive isolato dal resto del mondo e nessuno può più raggiungere stazioni e aeroporti, gli anziani sopravvivono sempre più a lungo e i bambini s’indeboliscono lentamente fino a sparire. Così accade a Mumei, il protagonista della storia, alle prese con una strana ossessione per i grandi animali che nessuno ha più visto: elefanti e zebre che continua a disegnare su fogli di carta, ricopiandoli da vecchie guide illustrate.

AGLI OCCHI di suo nonno Yoshiro, il bambino appare come un mancato futuro professore di zoologia, che avrebbe potuto girare il mondo, osservare le specie e scriverne in saggi e trattazioni accademiche – se solo non avesse mai visto dal vivo nemmeno un coniglio. È una prospettiva vicina a quella prefigurata da David Quammen nel suo Alla ricerca del predatore alfa (che sarà anche in ebook per Adelphi). «Man mano che la memoria andrà sbiadendo e le popolazioni degli zoo saranno sempre più geneticamente affievolite, comodamente mansuete, lontane dalla loro realtà originaria, le generazioni future faticheranno a immaginare che quegli animali erano un tempo fieri, pericolosi, imprevedibili» scrive quasi all’inizio della sua indagine dedicata a grandi predatori in grado di mangiare gli umani, come tigri, orsi, squali e coccodrilli «per i bambini sarà fonte di eccitata meraviglia apprendere, se ci sarà chi glielo dica, che una volta c’erano davvero al mondo leoni in libertà».

C’è qualcosa di magnetico in questo incanto, in questa eccitazione meravigliata, che riguarda il nostro essere animali, una dimensione che di solito tendiamo a dimenticare, a tradurre in una distanza – Normal people put people first scriveva Joy Williams nel suo famoso saggio The inhumanity of the animal people a proposito delle contraddizioni culturali ed etiche che strutturano le relazioni tra umani e altri animali a partire dalle abitudini alimentari, fino alla indiscutibilità delle prassi scientifiche. Che si tratti di giardini zoologici, laboratori sperimentali, o allevamenti intensivi è sempre da questa distanza che derivano gli stati di cattività, qualcosa da cui ci illudiamo di tenerci alla larga ma che invece ci riguarda profondamente, direttamente. «Gli animali degli zoo o dei circhi ci assomigliano molto di più di quelli che esistono in natura, anche se siamo convinti di aver scelto il modo in cui viviamo – ha fatto notare la stessa Yoko Tawada in un’intervista comparsa su The Fabulist alla fine del 2017 – ho studiato a lungo la vita nelle carceri, e credo che la nostra esistenza sia molto simile a quella che si può condurre dentro uno zoo o una prigione».

CIÒ CHE DAVVERO ci attrae degli altri animali è qualcosa che continua a sfuggirci di mano, un’antica bellezza a cui, strato sotto strato, percepiamo di appartenere. È una bellezza che spesso ci illudiamo di poter catturare, di cui comunque raramente parliamo, che rimane esclusa dai nostri discorsi. «La biologia non utilizza la categoria della bellezza per descrivere gli organismi», scrive la scienziata tedesca Christiane Nüsslein-Volhard, premio Nobel per la medicina nel ’95 e direttrice del dipartimento di Biologia evoluzionistica del Max Planck Institute, autrice de L’incanto degli animali, appena pubblicato in Italia da Il Saggiatore. «Il ricercatore rigoroso evita di applicarla a forme, colori e suoni, poiché tale categoria dipende dall’osservatore ed è legata a sensazioni soggettive suscitate da qualità non misurabili» spiega. Anche da un punto di vista dell’evoluzione la bellezza non ha trovato giustificazioni sicure.

Certo, c’è l’ipotesi avanzata da Darwin della selezione sessuale nella scelta del partner, «ma la bellezza del pavone resterà un mistero ancora a lungo» spiega la biologa, perché per molti animali non esiste al momento alcuna prova della correlazione tra manifestazioni fisiche di forme e colori e funzione ambientale, neanche quando si parla di clima. Tutto viene deciso a livello embrionale, racconta Nüsslein-Volhard, e solo nel caso del pesce zebra questa fase è accessibile a un’osservazione diretta – perché le uova deposte sono grosse e trasparenti. Negli altri casi, sarà sempre una questione di pelli e di piume, setole e squame, creste e cuticole. Gli involucri che ci rendono riconoscibili funzionano in modo diverso a seconda della specie, di solito si rinnovano di continuo e hanno la funzione di regolare gli scambi con l’esterno. È così che ci incontriamo, ma non si tratta mai di un incontro neutro.

«Una delle prime forme dell’autoconsapevolezza umana fu la percezione di essere pura e semplice carne», ci assicura Quammen che, in quasi seicento pagine, scandaglia tutto quell’immaginario che parte dai racconti sui «mangiatori di uomini» – una vera e propria «pornografia del predatore», come la definisce – e arriva fino al nocciolo della questione: stare al mondo sapendo di essere prede fa tutta la differenza possibile.

L’AUTORE RIPORTA, tra le tante, l’esperienza della filosofa australiana Val Plumwood e il suo articolo Being Prey – diventato un classico della letteratura in materia – in cui l’autrice racconta di come una mattina di febbraio del 1985, partita in canoa per un’esplorazione nel Parco nazionale di Kakadu, si è ritrovata stretta in una «morsa rovente» tra le fauci di un coccodrillo marino. Come racconta Plumwood, scoprirsi all’improvviso vulnerabili coincide per forza di cose con un salto imprevisto nel sistema di valori. È sempre, prima di tutto, una questione di corpi, di libertà, di desideri.

Nel suo romanzo del 2010, portato in Italia da Nottetempo e da poco tradotto in lingua inglese con il titolo To leave with the reindeer, la scrittrice francese Olivia Rosenthal indaga a fondo questi nodi, intrecciando la formazione di una donna borghese, e l’attrazione per gli animali inaddomesticabili che dall’infanzia ne muove la crescita, con una serie di conversazioni intrattenute nel corso di una vita con allevatori, macellai, tecnici di stabulari, responsabili di faune circensi e giardini zoologici. Un testo che assomiglia a un saggio personale, il reportage narrativo, intimo e durissimo, su un desiderio prepotente destinato a rimanere insoddisfatto e sulla noia come misura del tempo che siamo incapaci di usare perché «in cattività l’immaginazione si esaurisce».

TORNA, NELLE PAGINE di Rosenthal, l’immagine della bambina che ama ciò che non conosce – creature distanti, di cui non ha mai avuto esperienza diretta, di cui ha appreso tramite «film estremamente elaborati che zoommano con maestria sulle bocche, sugli occhi, sui ciuffi di pelo, sui musi, sulle lingue, sulle orecchie, sui denti» provocando una perdita di scala – un archetipo, che fa dell’immaginazione il fondamento dell’amore, della fantasia materica il presupposto della sessualità.

Nel suo esordio narrativo Sirene, uscito nel 2007 per Einaudi e di recente ripubblicato da Marsilio, Laura Pugno sovvertiva i confini del possibile trascinandoci negli abissi di un mondo subacqueo fatto di sogni proibiti e inesplorate perversioni capaci di avvicinare lo stato di cattività ai meccanismi dello stupro. In uno spazio-tempo dilaniato da un’epidemia solare, dove esseri metà umani e metà pesci vengono allevati in gigantesche vasche riproduttive, può capitare del resto di perdere il filo che separa una specie dall’altra, l’erotismo dalla prevaricazione, l’autoconservazione dall’istinto cannibale.

È COSÌ CHE LA VICENDA di Samuel, giovane collaboratore di un gruppo di allevatori appartenenti alla yakuza giapponese, conferisce al corpo inventato della sirena – sempre ricoperto di quella «sostanza madreperlacea, viscida al tatto» – uno stato di corpo animale simbolico. Nella sua descrizione zoologica, minuziosa, costantemente sessualizzata, ipnotica – fatta di «membrane nittitanti» e «carne granulosa», «squame verdi o azzurre» e «denti affilati e mortali», «musi di vacca» e seni dai «capezzoli duri» sempre ricolmi di latte dolciastro simile a sperma, capelli che hanno le sembianze di una «massa muscolare» e pelli «biancoargento» – questo corpo diventa l’approdo di una pulsione indicibile, totalizzante e morbosa, a cui non ci si può sottrarre, anche quando si è consapevoli di rischiare la vita. Sono passati tredici anni dalla prima pubblicazione di questa storia breve e difficile da dimenticare, e chissà quante cose non sappiamo ancora di noi, del nostro incanto animale.