Più di un anno e mezzo fa, dopo l’ennesimo triste Sei Nazioni per i colori azzurri, Conor O’Shea cominciava il suo cammino alla guida della nazionale italiana di rugby. Correva l’aprile 2016. Dopo due francesi, due neozelandesi e un sudafricano, la panchina azzurra era affidata a un irlandese. Quattro anni di contratto per O’Shea e la missione di risollevare il rugby italiano da una crisi profonda. La situazione era alquanto seria: male la nazionale, regolarmente sconfitta dalle avversarie, malissimo le franchigie impegnate nelle coppe europee, catacombale il clima del nostro massimo campionato, chiari segnali di un disinteresse crescente da parte del pubblico. Persino nei match casalinghi del Sei Nazioni sulle gradinate dello stadio Olimpico cominciavano a scorgersi spazi vuoti, nonostante la massiccia presenza dei tifosi avversari, sempre lieti di scendere nella Città eterna.

Nell’accettare l’incarico Conor O’Shea si era preso l’impegno di mettere mano a tutta la struttura del rugby italiano: dalla nazionale alle accademie, e poi le franchigie e il campionato e giù per li rami, o almeno fin dove poteva giungere la sua potestà. Il processo, che è insieme tecnico-organizzativo ma anche di spending review, è in atto: le accademie sono state ridotte e concentrate; alcune buona novità sta emergendo a livello giovanile tanto a livello individuale quanto di squadra (ottavo posto e ottime prestazioni all’ultimo mondiale Under 20); qualche bagliore dalle due franchigie, soprattutto da Treviso, nel Pro14, l’ex Celtic League.

Per tutto il resto il cammino del nostro rugby continua a essere tormentato. Nel 2017 la nazionale ha disputato 11 match, perdendone 10 e vincendone uno (contro Figi nei test di novembre). Nella classifica di World Rugby l’Italia occupa il 14° posto, superata oltre che dalle squadre del cosiddetto Tier 1 (l’élite composta dalle Sei Nazioni e dalle quattro grandi dell’emisfero Sud) anche da Figi, Giappone, Georgia e Tonga. E poiché la nazionale è il motore che traina l’intero movimento rugbistico, se questa va male è difficile che le cose possano andar bene ai livelli più bassi.

Il 2017 è stato l’anno più nero per lo sport italiano, segnato dall’esclusione della squadra azzurra dai mondiali di calcio e dalla sparizione della nostra atletica leggera: un bronzo nei 20 km di marcia ai mondiali di Londra e nulla di più. Nella corsa, nel lancio, nei salti, la base di qualunque gesto atletico, non siamo più in grado di competere. Nelle discipline di squadra siamo affondati; e se al nostro sport togliamo il nuoto, la scherma (antica tradizione) e gli exploit delle donne nello sci, a parte alcune discipline minori non resta praticamente nulla. Non è un paese per sportivi, questo, e per rendersene conto basta mettere piede in un qualsiasi edificio scolastico.

In questo desolante panorama il rugby non costituisce dunque un’eccezione. Ma se in molte discipline, l’atletica in primis, l’emergere degli atleti neri delle nazioni africane o delle isole caraibiche ha ridefinito molte graduatorie di merito, nel mondo ovale la competizione continua invece, pur con qualche aggiustamento, a svolgersi tra i medesimi attori: le home unions britanniche, le grandi dell’emisfero Sud, la Francia e dal 1998 l’Italia, infine le isole del Pacifico. A mutare non sono dunque stati gli equilibri tra le nazioni ma il cambio di passo che l’avvento del professionismo ha impresso al rugby dopo il 1995, un cambio di passo che l’Italia fatica a sostenere.

La parola chiave che sentirete sulle bocche di tutti gli addetti ai lavori è “intensità”, sostantivo che può essere utilizzato con molte accezioni. Intensità vuol dire più partite nel corso di una stagione, più impegni ad alto livello, più stress mentale. Intensità vuole anche dire che nel corso di un singolo match si corre di più, si placca di più, si impatta con maggior frequenza. Le pause fisiologiche sono state ridotte, le panchine lunghe e le molte sostituzioni hanno concentrato l’impegno di ogni giocatore e non sono ammessi cali di tensione: a ognuno di loro è richiesta “intensità” e un carico di lavoro sempre maggiore. Più peso, più muscoli, più velocità, più forza, più resistenza al dolore e alla fatica, e tutto questo in uno sport basato essenzialmente sull’impatto fisico: tu corri, io ti afferro e ti butto giù, cento e passa chili di qua, cento e passa di là.

Un recente rapporto sugli infortuni nella Premiership inglese, che è considerata il campionato più impegnativo, riferiva un totale di 447 incidenti nella stagione 2015-16, più di uno a partita, con una media di 30 giorni necessari a recuperare. Il 45% di questi infortuni è causato dai placcaggi, metà dei quali ha comportato commozioni cerebrali di varia entità. Si sta tentando di correre ai ripari, dando sempre maggior attenzione agli infortuni da impatto, e gli stessi giocatori cominciano a prenderne coscienza. Il mondo del rugby professionistico è ormai popolato da super-atleti impegnati in una reciproca opera di demolizione fisica che ha finito per riflettersi anche sull’evoluzione del gioco: pick and go, prendi la palla e vai a impattare una, due, tre, quattro volte, cercando di sgretolare il muro dei corpi avversari. Qualcuno, non a torto, ha scritto che l’evoluzione del rugby a 15 lo sta portando a somigliare sempre di più a quello a 13, il rugby league, e non è certo un complimento.

Ma non è fatto solo di forza bruta il rugby giocato ai massimi livelli. Potenza e velocità vanno a braccetto con capacità tecniche sempre più elevate, con un’attenzione spasmodica al singolo gesto, quello che può fare la differenza in ogni momento del match se eseguito nel momento giusto e in un contesto corale. Ed è qui che lo iato tra il rugby italiano e quello delle altre grandi nazioni si è fatto sempre più evidente: in un mondo ovale che corre veloce, l’Italia fatica a reggere il passo. Conor O’Shea sta lavorando su questo e assicura che le cose stanno migliorando, il problema è quanto sia ancora lungo il cammino da percorrere per risalire la china e quando si potranno raccogliere i primi risultati. Nulla si improvvisa, e ancor meno nello sport, ma non c’è dubbio che senza risultati (leggi vittorie) il rischio, come qualcuno ha scritto, è che l’operazione riesca bene ma il paziente sia morto.

L’ingresso dell’Italia nel club dei grandi è datato 1998, dopo una bella sequenza di vittorie su Irlanda, Scozia e Francia. Nel 2000 è cominciata l’avventura nel Sei Nazioni. Il momento migliore, coinciso con l’ottavo posto nel ranking mondiale, è datato 2007: due successi nel torneo (in casa della Scozia e con il Galles al Flaminio) e a un passo dalla qualificazione al secondo turno dei mondiali di Francia. Poi è cominciato il calo: qualche vittoria episodica e una sfilza di sconfitte, con gli ultimi due Sei Nazioni conclusi a zero punti e molti malumori tra i pur generosissimi tifosi azzurri. “Perdono sempre” è divenuto lo sconsolato ritornello tra i molti che hanno provato ad avvicinarsi al rugby e alla nazionale italiana, attratti dal fascino del Torneo per eccellenza, per poi allontanarsi delusi. Difficile spiegare loro che il mondo ovale ha regole alquanto rigide: se entri a far parte del club dei migliori, è con loro che ti dovrai misurare e non con i meno bravi.

Sempre più spesso, e con molte valide ragioni, si sostiene che il rugby azzurro è “politicamente sovradimensionato” (Luciano Ravagnani sul numeri di AllRugby dello scorso dicembre), “costretto ad agire in un mondo troppo esigente, in uno sport che, già di per sé, ha smarrito il senso della misura”. In buona sostanza destinato a perdere quasi sempre perché obbligato a giocare con squadre comunque più forti, quelle del Tier 1. La novità è che il tour azzurro della prossima estate propone due test con il Giappone che ospiterà i mondiali del 2019, e in autunno ci sarà la sfida con la Georgia, la squadra europea di “seconda fascia” che sta scalando posizioni e che ci precede nel ranking. Tre impegni che sono un’opportunità per uscire da un circuito soffocante ma anche l’annuncio di verdetti che sarà difficile contestare: perdere con loro certificherebbe che l’Italia non è più in grado di far parte del club dei migliori.

Si comincia con l’Inghilterra

Questo è il contesto nel quale l’Italia si presenta alla diciannovesima edizione del Sei Nazioni. Con una squadra decisamente giovane, diversi esordienti nel torneo e la necessità (non l’obbligo) di andare oltre il consueto copione di sole sconfitte, alcune “onorevoli” e altre meno. Non sarà facile. Si comincia domenica con l’Inghilterra all’Olimpico (Dmax, 16.00): i campioni in carica, ormai stabilmente posizionati al secondo posto della classifica mondiale, appena sotto gli imbattibili All Blacks. Inutile farsi illusioni: con il XV della rosa l’Italia non ha mai vinto, nemmeno quando gli inglesi navigavano in cattive acque, e non sarà certo questa sfida a invertire il corso degli eventi. Non c’è punto debole nella squadra allenata da Eddie Jones: è forte nel pacchetto di mischia, metodica nell’esercitare pressione sugli avversari, velocissima e talentuosa nei trequarti nonostante i molti infortunati.
Conor O’Shea ha annunciato oggi la formazione e ci sono diverse sorprese rispetto alla squadra impegnata nei test dello scorso novembre. In mediana c’è il ritorno di Tommaso Allan all’apertura in coppia con Marcello Violi, mentre Carlo Canna va in panchina. All’estrema ci sarà Matteo Minozzi, 21 anni e 3 presenze in azzurro, e non Jayden Hayward. Inedita la trequarti, dove Sergio Parisse, alla sua presenza numero 130, sarà affiancato dai giovani Renato Giammarioli e Sebastian Negri. In seconda linea altro ritorno, quello di Alessandro Zanni.

Le formazioni.
Italia: Minozzi; Benvenuti, Boni, Castello, Bellini; Allan, Violi; Parisse, Giammarioli, Negri; Budd, Zanni; Ferrai, Ghiraldini, Lovotti.

Inghilterra: Brown; Watson, Te’o, Farrell, May; Ford, Youngs; Simmonds, Robshaw, Lawes; Itoje, Launchbury; Cole, Hartley, Vunipola.

Domani le prime due partite. Alle 15.15 si comincia con Galles-Scozia al Millenium di Cardiff (Dmax, 15.15), con gli scozzesi che in molti indicano come la terza forza del torneo e i padroni di casa in piena ricostruzione dopo un decennio vissuto sempre al vertice. A seguire da Parigi (Dmax, 17.45) la sfida tra Francia e Irlanda. La Francia, penultima nella scorsa edizione, non riesce a risollevarsi da una crisi tecnica che dura ormai da quattro stagioni, l’Irlanda è invece indicata come la sfidante più accreditata degli inglesi per la vittoria finale nel torneo.