Ieri la pioggia – improvvisa ma violenta come accade spesso a Hong Kong – ha rallentato l’impeto per le strade: l’acquazzone ha costretto molte delle persone scese in strada a ripararsi. Una situazione ideale per la dirigenza politica di Hong Kong. Rallentare il ritmo dei manifestanti e guadagnare tempo. La novità della giornata di ieri è arrivata dai leader della protesta che, attraverso un comunicato, hanno fatto sapere le proprie, nuove, rivendicazioni. Innanzitutto hanno formulato la richiesta di un incontro con la classe politica che governa Hong Kong, in particolare con il chief executive Leung Chun-ying, che ieri per precisare la sua posizione ha dichiarato di non avere alcuna intenzione di dimettersi.

In caso di mancata risposta, i leader di Occupy (un movimento formatosi nel corso degli anni, nato da accademici e professori, e poi dilagato a studenti e più generale società civile, specie in queste giornate) hanno promesso nuove mobilitazioni, un’estensione territoriale delle manifestazioni e nuovi scioperi. È quest’ultimo uno degli elementi più interessanti della giornata. La sensazione ormai è che agli studenti si siano unite anche fasce sociali, lavoratori e lavoratrici, che potrebbero trasformare le richieste politiche, anche in istanze sociali contro le diseguaglianze. In particolare sono stati i lavoratori a sottolineare la bizzarra alleanza tra grande capitale e Partito comunista cinese, sottolineando dunque la necessità di non rimanere schiacciati da questo gigantesco macigno.

Uno dei leader di Occupy Central Chan Ki-man ha ribadito le richieste degli studenti, insistendo sulle dimissioni del capo del governo locale di Hong Kong, Leung Chun-ying. «Solo allora potremo eleggere un nuovo governo ed avviare un nuovo processo di riforme politiche», ha aggiunto. Non solo dunque una generica «democrazia», ma rivendicazioni molto più concrete.

E oggi, anniversario, il sessantacinquesimo, della Repubblica popolare cinese, Hong Kong vedrà una situazione apparentemente paradossale. Da un lato le celebrazioni, dall’altro le proteste. In più, essendoci due giorni di festa, per i manifestanti si apre la possibilità di «riconquistare» la città, senza interferire nella vita quotidiana degli abitanti di Hong Kong.

Intanto l’amministrazione locale ragiona su quanto accaduto nei giorni scorsi. È soprattutto la giornata di domenica a preoccupare, sia Hong Kong, sia Pechino. La scelta di utilizzare i lacrimogeni ha creato un grave imbarazzo al governo locale e pare si sia trattato di un gesto poco gradito anche a Pechino. Nelle giornate di mobilitazioni, che presumibilmente ripartiranno oggi, «l’amministrazione sta riflettendo su come pacificare i manifestanti e allentare le tensioni. I funzionari – ha spiegato una fonte al South China Morning Post, il quotidiano di Hong Kong – hanno notato che il confronto tra manifestanti e polizia era meno grave a Causeway Bay e Mong Kok, dove i gas lacrimogeni non sono stati utilizzati nel tentativo di disperdere la folla. Da un punto di vista politico, non è stata una buona idea sparare gas lacrimogeni sui manifestanti».

Anche perché questa volta l’attenzione di Pechino sarà massima. Xi Jinping, il numero uno, non si è ancora espresso, almeno ufficialmente, ma l’aria che tira da quelle parti non pare essere serena. La Cina ha puntato molto – a livello internazionale – sulla propria immagine di paese stabile, pacificato. Qualcuno a Pechino ricorda anche che l’oggetto del contendere, le elezioni a suffragio, garantite, benché con la possibilità di votare solo i candidati graditi alla dirigenza del Pcc, è comunque un passo avanti rispetto alla gestione di Hong Kong sotto la monarchia inglese (quando il governatore veniva scelto da Londra).

La libertà di parola, di riunione e di religione e la libertà di stampa sono tutti diritti sanciti agli abitanti di Hong Kong, dalla «Basic Law», una sorta di costituzione stabilita nel momento del passaggio dell’isola dalla Gran Bretagna alla Cina. Una costituzione gestita dalla teoria di «un paese due sistemi». La questione per la Cina, però, è molto semplice: la cosa importante- nella teoria di Deng – è la prima parte: «un paese». Hong Kong non è indipendente. Le modifiche alla Basic Law devono essere decise dal Congresso nazionale del popolo controllato dal Partito comunista. Sono questi i limiti denunciati da Occupy: non solo istanze, ma un profondo sentimento anti Pechino.