Dopo Death and the Maiden del cileno Ariel Dorfman e Carnage di Yasmina Reza, un altro hit dal teatro newyorkese per Roman Polanski, che porta sullo shermo il testo del drammaturgo americano David Ives, a sua volta ispirato dal romanzo di Leopold von Sacher-Masoch Venere in pelliccia, Venus in Fur (1870). Presentato in concorso a Cannes il maggio scorso, è un adattamento fedele per un film liberissimo che capovolge la claustrofobicità della premessa –due persone sole in un teatro- moltiplicando i piani della rappresentazione in uno scambio continuo tra scena e proscenio, «attore» e «regista».

Comico, erotico, a tratti quasi gioioso, nella sua spumeggiante, affilata, parodia della lotta tra sessi, e dei suoi stereotipi, Venere in pelliccia è un arioso gioco di specchi a rimandi infiniti –un film di segno completamente opposto alla progressione rituale e asfissiante di Carnage. E in cui Polanski sembra molto piu «dentro», coinvolto in prima persona – non solo perché è la storia dell’incontro tra un regista e un’attrice, ma anche perché sua moglie (Emmanuelle Seigner) è uno dei due protagonisti e l’altro (Mathieu Almaric) sembra un gemello del regista da giovane.

Frustrato da una giornata di audizioni fallimentari per la sua piéce, Thomas è rimasto solo in teatro e sta discutendo al telefono con la fidanzata cosa fare per la cena quando arriva Vanda –in superitardo, anzi nemmeno sulla lista di chi doveva leggere per la parte, e completamente fuori personaggio. Lui cerca di liberarsi di quella sgangherata, volgare, implausibile, aspirante al ruolo della sua eroticissima eroina ottocentesca. Ma lei, masticando bubble gum a più non posso e sfoggiando, oltre allo stesso nome della protagonista, una conoscenza imprevista del testo («gli ho solo dato uno sguardo»), lo cattura come con un lazzo invisibile, sullo sfondo della scenografia per un adattamento musicale di Ombre rosse di John Ford –che include un gigantesco, iperfallico, cactus. Si è persino portata, in una borsa alla Mary Poppins, alcuni attrezzi di scena fondamentali –un abito d’epoca, gli stivali altissimi da dominatrix e una magnifica giacca maschile da sera.

Thomas, «legge» la parte di Severin. In breve, tra i due e i loro alter ego ottocenteschi è un fluido, appassionante, balletto di identità in trasposizione continua.

È Vanda (al quadrato –quella «vera» e quella della piéce) che conduce il gioco –sempre parecchi numeri più avanti di lui, portandolo dentro e fuori dal testo. Manovra persino le luci. Con evidente delizia di Polanski (la cui filmografia include alcune memorabilia donne vittima) e progressivo rapimento della sua «preda» che, dopo un po’, suggerisce telefonicamente alla fidanzata di mangiare gli avanzi che ci sono nel frigo perché lui ha ancora da fare. Seigner dà a Vanda un abbandono, una leggerezza e una carnalità che arrotondano i passaggi programmaticamente più «ovvi» della rilettura postmoderna/femminista del testo di Sacher-Masoch.

Ma la sua è anche una Vanda più enigmatica, imprevedibile. Almaric, che inizia il film nella parte dell’autore/mattatore/sadico/nevrotico si trasforma progressivamente in un rapito, sottomesso, cucciolo di pelouche. Nella produzione orginale del 2010, messa in scena dalla Classic Stage Company, Nina Arianda e Wes Bentley avevano interpretavano la parte dei protagonisti.
In questa versione, la voce stessa di Polanski si fa sentire qua e là – come quando Thomas definisce il suo testo «una magnifica storia d’amore» lei ribatte che è porno venato di gusto per la molestia infantile. Ma perché bisogna leggere tutto in chiave politico/sociologica? Si lamenta il regista.

Tempestosa in apertura e poi sempre più vicina al coro da tragedia greca previsto dal gran finale, anche la colonna sonora di Alexander Desplat registra la sottile vena di humor che attraversa lo scontro, il suo gusto del gioco. Anche visivamente (la fotografia, in scope, è di Pavel Edelman) Venere in pelliccia sembra un film che Polanski si è molto divertito a fare. Bellissimo.