Goliarda Sapienza si è espressa attraverso molte forme d’arte e di scrittura: romanzo, autobiografia, teatro, cinema, poesia e per comprendere tanta complessità è necessario costruire una genealogia. Nasce a Catania, nel 1924. La madre, Maria Giudice, agli inizi del Novecento è già segretaria alla Camera del Lavoro di Voghera. È attivista appassionata e viene arrestata in più occasioni, tra cui, nel ’17, a Torino, per partecipazione non autorizzata a una tragica manifestazione contro la guerra finita nel sangue. Maria Giudice è vedova ed ha già sette figli quando incontra Peppino Sapienza, catanese avvocato del popolo, a sua volta vedovo e padre di tre figli. La passione politica e amorosa fa il resto.

Così Maria con i suoi figli, da Stradella si trasferisce a Catania: ed è lì che tra i vicoli della Civita, nasce Goliarda. Ma perché Goliarda, quel nome? Goliardo era l’infelice figlio di Peppino trovato morto affogato misteriosamente a quindici anni e tocca a Goliarda, nuova nata, incarnarne la memoria. Le stanze in cui la famiglia vive sono praticamente il centro antifascista di Catania e per i primi sedici anni saranno soprattutto gli uomini di casa, i fratelli, a occuparsi della piccola: le donne, donne del nord al sud e in piena fuga da casa, sono meno presenti, madre compresa: «sballottata fra braccia e petti duri pieni di peli… le guance ancora mi pizzicano per tutte le barbe che per secoli mi hanno sbaciucchiato».

Iuzza, così viene chiamata Goliarda. Dallo zio Nino impara molte cose sull’anarchia e da Ivanoe impara la storia «tocca a lui pure parlare delle mestruazione». La madre però trova spesso modo di ripeterle: «se qualcosa non ti convince, ribellati, sempre». E la scuola? Resta poco tempo per la scuola – «era un privilegio che noi cresciuti per la strada non sapevamo cosa fosse» – e lì Goliarda avrebbe certo imparato tutto quello i suoi genitori volevano farle dimenticare. Così non ci va.

[do action=”citazione”]Si muove sempre controcorrente e nell’ottobre dell’80 viene arrestata: è accusata di avere rubato alcuni gioielli a casa dell’amica Ida Perticciani, detta Bambolina, e viene internata a Rebibbia[/do]

 

In casa, a dare una mano, ci sono Tina e Zoe, due ragazze amnistiate. E fuori c’è il quartiere, con tutti i suoi personaggi: c’è Tatò, il mendicante senza mani, c’è Rosa, la pistolina, forte come un toro. Ci sono le prostitute, c’è l’avvocato Castiglione, e i vicini di casa, l’intera famiglia Bruno…
Fuori dal cinema
Nella biografia che Giovanna Providenti ha dedicato a Goliarda è descritto bene questo mondo «Iuzza, bambina tra i nove e i quattordici anni, cammina da sola per il quartiere ’protetta dagli sguardi di tutto il vasto popolo della Cività’ che amichevolmente la saluta». (Giovanna Providenti La porta è aperta, Editore Villaggio Maori, 2010). Ma un bel giorno la madre si trasferisce a Roma e porta la figlia con sé. Goliarda ha sedici anni, si iscrive all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, ma alla fine non si diploma : attratta dal metodo Stanislavskj contesta gli insegnamenti dell’Accademia e fonda con altri studenti una compagnia di teatro d’avanguardia e se ne va. Lavora come attrice, con successo, nel fertile clima del neorealismo italiano. Lavora con Luigi Comencini, Alessandro Blasetti, Cesare Zavattini, Luchino Visconti e con Citto Maselli, che sarà suo compagno di vita per molti anni. Sono anni in ambiente da cinema, ambiente verso cui Goliarda presto mostrerà ben presto fastidio, insofferenza.

Ma è intorno agli anni ’60 che accade il peggio: a pochi anni di distanza uno dall’altra muoiono il padre e poi la madre e Goliarda reagirà a questi lutti con una forte depressione e un tentativo di suicidio coronato da elettroshock. Sopravvissuta a se stessa, lascia drammaticamente il mondo del cinema e si rifugia nella scrittura: «realtà-bugia», ambivalenza, dubbio e contraddizioni. A Goliarda non sono mai piaciute mai né le certezze né i modi di pensare che considerano solo uno dei risvolti della realtà e tutto questo entra di peso nella scrittura.
In Lettera aperta (Garzanti 1963, riedizione Utet 2007) Goliarda ritorna all’infanzia, racconta il suo incontro con la psicoanalisi e in Le certezze del dubbio teorizza chiaramente l’impossibilità di «stare con chiarezza». Mostra la paura a di essere fraintesa ma anche il suo «bisogno» d’essere fraintesa. Su questi doppi Goliarda costruisce buona parte della sua scrittura e della sua vita. Si muove sempre controcorrente e nell’ottobre dell’80 Goliarda viene arrestata: è accusata di avere rubato alcuni gioielli a casa dell’amica Ida Perticciani, detta Bambolina, e viene internata a Rebibbia. Aveva da poco terminato L’arte della gioia: il romanzo le era costato dieci anni di lavoro e, alla fine, si era rivelato un clamoroso insuccesso.

La prigione «scelta»
Goliarda confessa d’aver compiuto quel gesto come provocazione e si proclama «criminale per protesta civile». Interrogata afferma ch’era sua precisa volontà fare esperienza del carcere, così come aveva fatto sua madre, che spesso le aveva ripetuto d’aver imparato più cose in carcere che fuori. Dall’esperienza di Rebibbia nascono due opere: L’università di Rebibbia (Rizzoli 1983), e Le certezze del dubbio (Pellicano Libri, 1987). Con l’Università di Rebibbia Goliarda dice che il carcere è solo la forma più estrema di reclusione: sostiene che nella società civile, fuori, ci sono forme di reclusione e di limitazione della libertà più subdole. Impossibile parlare di Goliarda Sapienza e delle sue opere volendone dare un’immagine che coincida con qualche modello. Afferrare le contraddizioni, più che le coerenze questo è l’unico imperativo. E risuonano qui gli insegnamenti materni: il gesto di ribellione più forte è quello che rompe le verità irrigidite.

Ci viene in mente l’écriture feminine così come la intende Hélène Cixous: «Nella parola come nella scrittura femminile non cessa mai di risuonare ciò che, avendoci una volta attraversato…conserva il potere di colpirci (…) quella prima voce che ogni donna preserva, custodisce viva». Nel bene e nel male: «La donna non è mai lontana dalla madre», nonostante i petti villosi e tutte le barbe che l’hanno sbaciucchiata. La madre è distante solo un braccio, ma non sempre riesce a tenderlo. Difficile da definire è ogni libro di Goliarda, esattamente come lei, così anche quel suo L’arte della gioia rimarrà inedito molto a lungo. È stato definito romanzo ideologico anti-ideologico, storico, politico, lirico, autobiografico simbolico, psicologico femminista…Si tratta in realtà di un vero e proprio percorso verso sé e insieme di un viaggio di liberazione da sé. Sarà dopo una lunga serie di rifiuti che il libro approderà, postumo, a Stampa Alternativa nel 1998, ma in seguito incontrerà un grande successo editoriale: nel 2008 esce per Einaudi, che non mancherà di pubblicare postumi anche i racconti.

Nel romanzo L’arte della gioia Goliarda racconta di Modesta, personaggio centrale, in cerca d’una felicità immaginifica, perturbante, tutta sua. Nel libro trionfa un pluralismo di forme che si mescolano, Goliarda fa scrivere a Modesta persino due poesie, trascritte nel racconto. Ma che arte è questa della gioia? È conquista sempre ardua, forse impossibile. La gioia è anche il suo contrario, tiene i piedi ben piantati nella storia, passa tra silenzi femminili nella stanza dell’analisi, e tremendo è quel dubbio identitario, simbolico che accompagna Modesta : uccidere o no la madre? Dal corpo a corpo con la sua analista Goliarda trae un altro romanzo Il filo di mezzogiorno, pagine dure, di sconcertante verità. (La Tartaruga 2012). Goliarda Sapienza muore senza fama nel 1996. Di lei, oltre a L’arte della gioia, sono usciti postumi il romanzo Io, Jean Gabin e una selezione di scritti tratti dai diari, raccolti nel volume Il vizio di parlare a me stessa. Mancavano le poesie. Ed ecco, proprio in questi giorni Ancestrale, la sua raccolta poetica rimasta a lungo inedita. (La vita Felice, 2013). Con «questa raccolta» Goliarda si ricollega alla sua genealogia come se la poesia fosse un anello contenente un messaggio: siamo uno a partire da due: questo c’insegna l’ esperienza della nascita. Come nell’amore, sì, ma anche come in una lotta. L’esergo che Goliarda Sapienza pone ad Ancestrale è un esergo a due: «Assediati giochiamo ai dati/ Assediati posiamo le armi ed aspettiamo /L’assedio finirà/ Giochiamo, Aiace. L’assedio finirà».