Negli anni sessanta Carlo Bo scriveva che l’ultimo Leopardi – il Leopardi napoletano, che si congeda dall’esistenza nel 1837 – è il «punto di partenza» per la «nuova poesia italiana». Eppure, aggiungeva, questa nuova poesia «non passa per il monte della Ginestra»: il poemetto dedicato al fiore del deserto non sarebbe insomma, per Bo, il fulcro da cui guardare al legame fra Leopardi e i decenni che seguono, fino al Novecento. Solo qualche anno dopo, al contrario, Pier Paolo Pasolini indicherà proprio nella Ginestra «la poesia inaugurale di un intero modo di fare poesia», riconoscendo così nel canto napoletano un passaggio fondamentale – forse il più decisivo – per l’eredità leopardiana.

Se prendiamo come punto di osservazione privilegiato il panorama dell’attuale poesia italiana, penso risulti tutto sommato più centrata – e più utile, più feconda – la posizione pasoliniana (e non dimentichiamoci, quanto a Pasolini, di un suo poemetto dal titolo suggestivo, Regni di ginestre). In una auto-antologia uscita pochi mesi fa, Da qualche parte nello spazio (ed. Le Lettere), una testa di serie della nostra lirica per esempio – parlo del ticinese Fabio Pusterla – ha esplicitamente riconosciuto, a sua volta, l’importanza duratura della lezione leopardiana e della stessa Ginestra. Del resto la poesia di Pusterla era già popolata di segni, figure, simboli di resistenza che lasciavano pensare al fiore del deserto.

Qualcosa di analogo si potrebbe dire per un’altra voce indispensabile della lirica contemporanea, quella di Antonella Anedda, da sempre attenta allo sguardo «di chi (…) resiste» (come ci ha ricordato una bella monografia di Riccardo Donati, Apri gli occhi e resisti, uscita nel 2020 per Carocci). Forse potrebbe essere in effetti la Ginestra l’emblema araldico di un seduttivo saggio di Anedda, Le piante di Darwin e i topi di Leopardi (Interlinea, pp. 297, € 20,00). Il Darwin che compare in titolo non è tanto il più famoso Charles, l’autore de L’origine della specie, che pure era già amato dai poeti (Anedda ricorda, iniziando, l’ammirazione che gli rivolgevano Elizabeth Bishop e Osip Mandel’stam) e che ha comunque una parte non irrilevante in questo libro. Si tratta, in questo caso, anzitutto del nonno di Charles, Erasmus Darwin, nato nel 1731 e morto nel 1802. Ma cosa lega questi due nomi, Darwin e Leopardi? C’è un’opera di Erasmus – The Loves of the Plants (1789), parte del suo più ampio The Botanic Garden – che viene tradotta nel 1805, a Milano, da Giovanni Gherardini (un traduttore non ignoto a Leopardi: sempre a lui si deve, nel 1817, la versione commentata di un libro capitale per le discussioni fra classici e romantici, il Corso di letteratura drammatica di A. W. Schlegel). Gli amori delle piante – di ispirazione scientifica, ma scritto in versi – è tuttora su uno scaffale della biblioteca di Leopardi, a Recanati. È da questa presenza suggestiva che prende avvio l’esplorazione di Anedda, intenta a ricostruire tutti i possibili contatti fra il pensiero darwiniano e quello leopardiano.

Si potrebbero indicare almeno due direttrici lungo le quali corre il confronto. Da un lato, Anedda è sensibile a un nesso-chiave per tanta cultura moderna, quello fra scienza e poesia: e basterà, allora, notare quante volte sia chiamato in causa lo Zibaldone di pensieri, e quante volte l’autrice insista giustamente nel sottolineare la portata dell’immaginario scientifico per la riflessione e per la scrittura di Leopardi. D’altra parte, la grande parabola della scienza moderna ha soprattutto il risultato di ridimensionare considerevolmente il ruolo dell’essere umano all’interno della storia del mondo: l’uomo, avrebbe detto Friedrich Nietzsche, scivola dal centro del cosmo verso un punto «x», decretando dunque la fine di ogni possibile antropocentrismo, magari garantito da un dio.

È vero che i topi – nel titolo del saggio – ci rinviano ai Paralipomeni della Batracomiomachia, il poema in ottave nel quale Leopardi satireggia violentemente il secolo e le sue fazioni – liberali, papalini e austriaci – nascondendoli dietro le maschere animali dei topi appunto, delle rane e dei granchi. E il tema del riso – su cui Leopardi riflette a lungo e in più luoghi – ha in effetti un posto non secondario in queste pagine. Ma credo non si possa valutare il senso complessivo dell’operazione aneddiana, se non si tiene conto del ruolo della Ginestra nel percorso leopardiano nonché, come si è detto, del suo impatto sui lettori successivi.

Basterà annotare per esempio che, quando deve presentare un libro come L’azione dei vermi nella formazione del terriccio vegetale (l’ultima opera di Charles, un altro fondamentale tassello delle sue ricerche sul «tempo profondo» e sull’origine della Terra), Anedda definisce il verme nientemeno che «la ginestra di Darwin», dal momento che il verme, come la ginestra, «ammonisce gli esseri umani a non considerarsi creatori e signori della terra»: ecco, allora, inequivocabilmente sottolineato il forte impulso anti-antropocentrico che accomuna i due Darwin e Leopardi. E il fiore del deserto rispunta continuamente nei paragrafi aneddiani: opportunamente accostato al famoso pensiero dello Zibaldone sul giardino della sofferenza; o ricordato come esempio massimo della lingua «franca» di Leopardi, una lingua autentica, priva di artifici.

Soprattutto, la Ginestra è individuata come un «punto di arrivo», il luogo di una «compassione solidale», in cui finalmente l’«altruismo» si dà come «il risultato di una conquista». Non a caso, è su questa grande lirica che sostanzialmente si chiude il saggio di Anedda, su una Ginestra vista non solo come «elogio funebre» di un mondo armonico e teologicamente regolato, ma addirittura come approdo ultimo di una sorta di «romanzo di formazione» di Leopardi: un testo scritto da chi «forse ha imparato davvero a morire».

Compatire, accettare il proprio destino di essere fragile, persino cancellare sé stessi per provare ad accogliere l’altro: sono elementi preziosi per tentare di comprendere la poesia dell’ultimo Leopardi, e al contempo sono istanze che si ritrovano, pur con accenti diversi e originali, nella scrittura poetica della stessa Antonella Anedda. Potrebbe testimoniarlo, fra l’altro, proprio la sua raccolta più recente, Historiae (pubblicata per Einaudi nel 2018): un libro cui si adattano bene le parole che l’autrice spende proprio per questo saggio su Darwin e Leopardi, definendolo, molto significativamente, addirittura «una riflessione sull’io e il suo dissolvimento». Questa fratellanza con Leopardi si deve in gran parte alla capacità di Anedda di inserirlo in una costellazione di voci molto sue: così, di volta in volta, il poeta di Recanati può riconoscersi consanguineo del già citato Mandel’stam, o di Proust, o di Shelley, o di Anna Maria Ortese. Leopardi può, insomma, lasciarsi sottrarre al proprio secolo, sporgersi volentieri in avanti, diventare anche lui – al pari della stessa ginestra – una «pianta pioniera, capace cioè di colonizzare terreni scoperti», di propiziare il «successivo insediamento di altre specie». E ciascuno di noi, davanti a lui, è un po’ come il Darwin di Anedda: un suo «possibile interlocutore a venire».