Dallo spegnimento definitivo del nucleare allo storico sorpasso delle rinnovabili sul fossile raggiunto il mese scorso. La doppia svolta della Germania che in dieci anni ha rivoluzionato il proprio programma energetico, anche se impiegherà almeno un decennio per centrare la sostenibilità ambientale e altri trent’anni per il target delle emissioni zero.

In ogni caso a Berlino la nuova era è cominciata, all’insegna del gas, mentre lo Stato ha già investito ben 12 miliardi sulla futura frontiera dell’idrogeno.

LA RETROMARCIA. Dieci anni fa, tre mesi dopo il disastro di Fukushima, il secondo governo Merkel annunciava ufficialmente che la Germania avrebbe chiuso tutte le centrali atomiche entro il 31 dicembre 2022. Una svolta epocale per la cancelliera democristiana, fino ad allora tutt’altro che anti nuclearista né troppo preoccupata per i continui incidenti negli impianti tedeschi. L’anno prima, infatti, aveva dato il via libera al prolungamento della vita dei reattori condannati alla scadenza dei parametri tecnici di sicurezza, esattamente come richiesto dalla lobby dell’atomo.

Il 14 marzo 2011, però, Mutti aveva cambiato idea. Nelle 48 ore intercorse fra l’edizione straordinaria del Tg giapponese dell’11 marzo e la prima seduta utile del governo per votare lo stop di 3 mesi per le 7 centrali più vecchie e la chiusura immediata di Krümmel: l’impianto nucleare costruito negli Anni Ottanta sulle rive all’Elba alle porte di Amburgo (la sua città natale) con il famigerato record di guasti.

La moratoria venne certificata dalla Commissione tecnica per la sicurezza dei reattori e dalla neonata Commissione etica per il nucleare sicuro, quindi la cancelliera il 6 luglio firmò l’atto che sanciva l’uscita definitiva dal programma atomico.

Ma l’exit di Merkel coincise, anche e soprattutto, con la vittoria del movimento anti-nuclearista nato alla fine degli Anni Settanta con il Sole che ride e culminato nella fondazione del partito dei Verdi. Nell’estate 2000 proprio il governo rosso-verde guidato dal cancelliere Schröder varò l’Accordo tra il governo e le società di approvvigionamento che prevedeva di chiudere la centrale di Stade nel 2003, quella di Obrighen nel 2005, più l’obbligo per i gestori degli altri impianti al rifornimento minimo di combustibile nucleare: dal quel momento verrà contingentato fino al taglio totale.

Senza fissare la data di chiusura delle centrali, il governo calcolò che le barre atomiche si sarebbero esaurite al massimo nel lustro 2015-2020. La vita dei sette impianti operativi, in realtà, finirà il 31 dicembre 2022 e coinciderà con l’inizio della decomissioning che si preannuncia lunga, costosa, e tecnicamente problematica. Ma la svolta era conclusa.

IL SORPASSO. Il 30 dicembre scorso diventa pubblico il rapporto energetico dell’Istituto Fraunhofer con i dati del decennio successivo all’abbandono del nucleare. Da un totale di 53 Terawattora prodotti da fonti alternative del 2002 (con la quota di fossile pari a 459 Twh) si è passati a 245 Twh dell’anno scorso, segnando il clamoroso sorpasso rispetto alle centrali convenzionali che hanno immesso in rete solo 240 Twh.

Rispetto al dodici mesi fa il solare è aumentato dell’1,2%, l’eolico del 2,5%, e la produzione da biomassa quasi dell’1%. Non sono numeri eccezionali e risentono pesantemente del lockdown che ha fatto crollare i consumi, ma il Fraunhofer non fa sconti al governo evidenziando la crescita troppo lenta così come il mancato raggiungimento dell’obiettivo del 50% di produzione dalle rinnovabili. Comunque, per effetto del Covid-19, Berlino l’anno scorso ha ridotto il consumo di olii minerali del 12% (anche grazie al dimezzamento del carburante per gli aerei) mentre l’utilizzo di gas è calato del 3,4% per effetto della minore domanda di industria, commercio e servizi, non compensato dall’aumento del mercato domestico.

LA TRANSIZIONE INCOMPLETA. Tuttavia ancora non basta: nel 2020 la Germania ha importato il 36% di energia in più rispetto al 2019, mentre il colosso Uniper fa sapere che ( nonostante l’uscita dal carbone prevista per il 2030) la sua centrale Datteln 4, entrata in servizio lo scorso maggio, resterà accesa fino al 2038. «Mancano 150 chilometri alla conclusione del gasdotto Nord Stream sul Baltico per cui stiamo eliminando il carbone ma gradualmente. In futuro la Germania avrà bisogno di stock sempre più crescenti di gas» riassume Andreas Schierenbeck, Ceo di Uniper che gestisce l’impianto a carbone pulito «progettato per consumare meno CO2».
In realtà, come spiegano gli attivisti di Greenpeace e Bund, «la maggiore efficienza di Datteln 4 porta a far funzionare la centrale più spesso a pieno carico con il risultato di produrre più emissioni».

Per questo il ministero dell’Ambiente è stato costretto a confermare la previsione di crescita del CO2 fino al 2038. E per lo stesso motivo i maggiori sforzi del governo sono già rivolti all’idrogeno da produrre con fonti sostenibili. Un target tecnicamente quasi a portata di mano, ma davvero ancora troppo lontano.