Difende a spada tratta il suo bazooka da 200 miliardi di euro il cancelliere Olaf Scholz attaccato da tutta Europa. Il tetto al prezzo del gas e il fondo pubblico per calmierare le bollette non sono concorrenza sleale, come sostiene Bruxelles, bensì «misure giustificate tutt’altro che inedite dato che a breve verranno adottate anche dagli altri Paesi» sentenzia il leader Spd.

Anche la cifra da record del pacchetto-energia tedesco è adeguata alle dimensioni della prima economia del continente, insistono a Berlino, ufficialmente «stupiti» per i dubbi sull’equità del maxi-aiuto sollevati dei commissari Ue Thierry Breton e Paolo Gentiloni.

«C’è stato un malinteso. Il provvedimento è proporzionato se si considera la grandezza e la vulnerabilità della nostra economia» sottolinea con sorpresa il ministro delle Finanze, Christian Lindner.

Tutto secondo le regole e rispettando gli accordi, dunque: i patti sottoscritti a Bruxelles quanto gli accordi verbali che valgono più della soluzione europea invocata nell’Ue, a cominciare dalla premier in pectore italiana Giorgia Meloni.

Spicca il sintomatico dopocena fra Scholz e il presidente francese Emmanuel Macron, faccia a faccia a margine delle celebrazioni per il trentaduesimo anniversario della Riunificazione tedesca. Insieme per costruire il salvagente franco-tedesco in caso di emergenza con il mutuo soccorso di Megawatt attraverso gli elettrodotti a cavallo del Reno. In pratica, il nucleare di Edf in cambio dei combustibili fossili delle 27 centrali tedesche che Berlino riattiverà fino a marzo 2024.

Tuttavia non ci sarà nessun prolungamento della vita delle centrali a carbone in Germania. Anzi, l’esatto contrario. Ieri il colosso dell’energia Rwe (primo produttore nazionale) ha annunciato la storica decisione concordata con il governo Scholz. «Usciremo dal carbone nel 2030, otto anni prima di quanto previsto. Il motivo è matematico: siccome nel breve periodo dovremo bruciare più carbone, con conseguente aumento delle emissioni di CO2, anticipare l’uscita rappresenta l’unico modo per raggiungere l’obiettivo di protezione climatica» è il sillogismo dell’amministratore delegato di Rwe, Markus Krebber.

Misura logica non esattamente dettata dall’improvvisa conversione all’ambientalismo della società che gestisce la miniera di Garzweiler, il più grande e inquinante sito a cielo aperto di estrazione della lignite in Europa. Lo scorso marzo Rwe aveva vinto la causa legale contro gli agricoltori locali che si erano opposti all’esproprio delle loro fattorie per allargare la miniera. In tribunale l’impresa aveva spiegato che l’espansione era imprescindibile per superare la crisi energetica, ottenendo così il via libera allo sgombero.

L’uscita anticipata dal carbone impedirà di distruggere la campagna di Lützerath, è la buona notizia che bilancia l’inquinante contrappeso: fino al 31 marzo 2024 Rwe manterrà allacciata alla rete la centrale di Neurath «per rafforzare la sicurezza dell’approvvigionamento». Secondo le promesse della coalizione Semaforo, Verdi in testa, l’impianto avrebbe dovuto chiudere per sempre alla fine di dicembre.

Ma Berlino, ormai, contano solo le parole di oggi. Come il veto di Lindner a riattivare il fondo europeo Sure che sbloccherebbe subito 100 miliardi per gli Stati Ue. «Dobbiamo fare progressi per l’acquisto comune di gas e la ristrutturazione del mercato dell’energia, ma gli strumenti utilizzati durante la pandemia non possono essere trasferiti pari-pari in uno scenario di shock dell’offerta e inflazione».