Altrove è uno spazio sconfinato perché indefinito: è il luogo inesistente in cui potersi proiettare quando lo spazio abitato delude, ferisce, opprime. È la relazione ideale che vorremmo quando quella reale sembra così sbagliata. Altrove è il luogo in cui la voce narrante del romanzo di esordio di Elena Giorgiana Mirabelli, Configurazione Tundra (Tunué, pp. 106, euro 13,50), approda: «per ritemprarsi si cambia città per un minimo di tre a un massimo di sei mesi. Ed è chiamato l’“Altrove”. Il mio Altrove è questa città, questa casa, la sua vita».

In un tempo e una società non definiti, in un sistema alternativo, in occasione del suo «Altrove», Diana arriva nella casa di Lea, che è stata riassegnata perché la sua proprietaria è scomparsa. Lea è la figlia di Marta Fiani, l’architetta che ha progettato le città-bioma, tra cui Tundra, dove è ambientato il romanzo. Nell’esperienza di Diana l’Altrove rappresenta la possibilità di situarsi all’interno di un’altra vita, quella di Lea appunto, che ricostruisce attraverso gli appunti, i quaderni, gli oggetti che la donna ha lasciato nella sua casa quando se ne è andata scomparendo: «Lea un corpo l’ha lasciato, nelle scatole, negli scomparti segreti del suo spazio, fatto di angoli, spigoli, cassetti».

ATTRAVERSO questo corpo di memoria, Diana ricostruisce o reinterpreta la vita amorosa e sessuale di Lea, il rapporto con la madre che la trascurava perché del tutto concentrata sulla progettazione di questi luoghi in cui «ogni individuo avrebbe una propria posizione e funzione».

Il romanzo ruota attorno a due direttive: la prima è la scomparsa, l’assenza di un corpo nello spazio, con tutto ciò che ne consegue. La madre di Diana è scomparsa, come si legge nella prima scena, scopriamo a un certo punto che anche suo padre lo è e l’intera storia narrata si fonda sullo spazio vuoto lasciato da Lea. È molto interessante leggere come rispetto a questa tematica che comporta, di rimando, quella dell’abbandono, il focus non sia mai sul vuoto inteso come strazio, ingiustizia, dolore. Come se la geometria visionaria che caratterizza Tundra, come se la ricerca dell’architetta Marta Fiani di costruire un ordine funzionale, comprendesse davvero anche l’esistenza delle persone, che lasciano caselle, ma possono essere riempite.

QUESTO NON SIGNIFICA assenza di introspezione, al contrario: è evidente per esempio nel personaggio di Lea che noi conosciamo solo attraverso l’indagine pruriginosa di Diana che l’assenza della madre, in termini di attenzione, è stata molto significativa per lei. Solo che da questo non deriva il racconto del dramma dell’abbandono. Da parte sua, Diana rielabora e rivive la storia di Lea: la narrazione di Mirabelli suggerisce che questo aspetto trasformativo dell’assenza è dato ed è molto più interessante del dramma su cui di solito ci si concentra.

L’altro tema del romanzo è l’imprevedibilità: si tratta del fantasma del progetto di Marta Fiani, ciò che l’architetta del futuro vorrebbe del tutto abolire, perché ostacolo, nella sua visione, alla felicità: «“io voglio che l’umanità sia felice”. “Traiettorie ben definite. Posizione nello spazio. Funzione. Dove sarebbe la felicità?” “La felicità sta nell’esprimere al meglio le proprie potenzialità. E le si esprime se ci si sottrae all’indeterminatezza”».

I DUE TEMI sono profondamente legati tra loro e coerenti con la riflessione profonda e colta sull’architettura contenuta nel romanzo: il vuoto lasciato dall’altro che scompare origina uno spazio dove, prima che esso si riorganizzi, vige l’indeterminatezza. Mirabelli si guarda bene dal connetterla alla felicità, ma la lettura di questo romanzo costruito su un intreccio metaforico suggerisce che l’Altrove è la vita dell’Altr*, nella quale si capita, si piomba di continuo, ma può essere anche la nostra, se solo ci lasciassimo essere diversi da come ci siamo progettati.