A Monteverde c’era la palazzina di via Valla, le stanze dove lavoravamo. C’erano tutti quei ragazzi del Male. E poi c’erano i luoghi di Roma, i teatri off con i nostri amici dei teatri off, e le case di tutti noi. Alle origini c’era il nostro Greenwich Village, vale a dire Santa Maria in Trastevere, la libreria di Marina e il bar Di Marzio col Pernod a ora di pranzo. Lì orbitava un mondo che mi introdusse al giornale, a cominciare da Mario Masè, robusto montanaro del Trentino, detto Marione, che si occupava della distribuzione e insistette perché andassi a visitare la prima rudimentale redazione, il caseificio abbandonato, di fronte a Lotta Continua, e mi facessi conoscere.

A Santa Maria in Trastevere, alla libreria di Marina, vedevo Angelo Pasquini, che poi conobbi al caseificio. Da Marina venivano anche Gerardo Orsini, pisano, amico di Marione dai tempi di Lotta Continua e futuro amministratore. Tra l’altro in redazione nessuno sapeva come mi chiamassi e per un’inerzia magica mi rimase addosso il nome del mio personaggio. Soprattutto al Male c’erano gli scrittori e lo stormo dei disegnatori. C’era il dadà di quattro scrittori, Pasquini, Canale, Lo Sardo e io.

Pasquini e Canale, erano due pacati romani, che si rivelarono il primo uno scienziato del falso, con in mano la strumentazione completa del verosimile e dell’umorismo, il secondo, sempre vestito in modo inappuntabile e campione indiscusso di flipper al baretto di fronte al giornale, irriverente e grande tiratore di sassate satiriche. Piero Lo Sardo era l’inventore, un bel quarantenne dalla cantata napoletana. Negli occhi, barche di bontà, ma se quel mare placido si alzava era meglio non essere nei pressi. Io ero un ragazzo in scorza fiorentina e yiddish, entusiasta, pronto a mescolarmi a degli amici insoliti e promettenti, dai modi fraterni, scrittori di Napoli e della grande urbe romana, e a scatenare con loro la deflagrazione gioviale dell’umorismo. C’era poi un quinto scrittore, il vero giornalista tra noi, gioviale e ardimentoso, era Vincenzo Sparagna, napoletano, poi fondatore di Frigidaire, dalla voce bronzea come una campana.

La divisione del lavoro era tra noi scrittori di testi, autori d’invenzioni, eventi, falsi ideati e realizzati ma in incognito, e la prateria infinita della satira disegnata, tracciata in modo indelebile dalle magie volanti di Vincino, le deviazioni surrealiste di Perini, le vignette popolari di Sergio Angese, l’underground smaltato di Andrea Pazienza e lo hard sessuale e ossessivo di Jacopo Fo (Karen) che produceva primi piani di erezioni come se piovesse, e se no c’era la sessualità perversa della celebre suora di Filippo Scozzari. E certo non come ultima, c’era la visionarietà statuaria di Tanino Liberatore. Perciò il disegno del Male fu lo spazio underground italiano emerso fino alla superficie della realtà per squartarla e incenerirla. Tutti tra i venticinque e i trent’anni. Vincino era attendato all’estremità del piano, nel suo stanzino con balcone, lì c’era un banchetto pieno di matite e inchiostri, una pianta affacciata sulla corte e le nuvole dell’erba in fumo. A pianoterra, incassato nella sua stanza, c’era Vincenzo, Tersite, con lo sferragliare della macchina da scrivere. Veniva l’estate, Piero camminava a pieni nudi nel giornale, lasciava le sue impronte e sotto il bel cielo di Roma c’era Pazienza, pugliese, giovane e sorridente, fenomenale, che si rivolgeva a tutti con delicatezza. C’era Cascioli, romanissimo, allegro, pieno di e anvedi, sottobraccio mazzi di fotografie ritagliate dai giornali.

Romanissimi, al tavolo, o in strada con le moto, Sergio Angese e Roberto Perini entravano in redazione ridendo e col casco in mano. Con loro c’era o veniva subito dopo Enzo Sferra, altro disegnatore romano, l’uomo dei colori, altro motociclista, con cui andavano rombando a Ostia a mangiare il pesce. Nella grande stanza al secondo piano, tagliente, dissacrante e toscano, che poi sono la stessa cosa, disegnava Giuliano Rossetti con il suo santino alla rovescia di Gesù in croce. All’ammezzato c’erano il lungo tavolo dei grafici con Giovanna Caronia, allegra, moglie di Vincino, il malinconico Marcello Borsetti, Cinzia Leone, grafica e disegnatrice, e sorridente e gentile, Francesca Costantini. Salendo al secondo piano, avreste trovato Alain Denis, disegnatore francese trapiantato a Roma, spiritoso, buongustaio e un cuoco leggendario. Al tavolo, di fronte ad Alain, Carlo Cagni, persona mite, disegnatore elegante e surreale, dalla risata amichevole. E poi, itinerante tra Milano e Roma, Dario Fiori, scrittore sardo trapiantato a Milano, dotato di battute acide, piccolo editore underground di libri minimi. E c’era Sergio Saviane, critico televisivo.

Spiritosissimo, veneto, buongustaio, conoscitore di vini. Storico inventore con l’Espresso dell’espressione divenuta poi di uso comune, mezzo-busto, per indicare la staticità fisica di quelli del Telegiornale ridotti a torsi. Sergio entrava nello stanzino mio e di Angelo e si raccomandava come prima cosa di non mettere punti esclamativi. Infine c’era Vaniglia, redattrice con la coda, che era un cane giallo. Una femmina di spinone al mio seguito che metteva la firma sul tamburino del giornale. Da adulta fondò in Valdorcia una repubblica di cani vaganti, poi scomparve.
In redazione correva una trincea. Era quasi visibile. Era stata tracciata da noi quattro scrittori, la cosiddetta banda dei quattro. Lì dentro combattevamo in difesa dello spazio editoriale, della nostra scrittura e del giornale come doveva essere secondo noi. Una lotta quotidiana, sia dura che felice. E in mezzo, per decenni, l’amore tra noi e Vincino.