Oskar Kokoschka, segnato nel corpo e soprattutto nell’anima dalle ferite della Prima guerra mondiale, con l’ossessione di essere impotente, girava portando sempre con sé una bambola con le forme di Alma Mahler, il suo grande amore. Nelle lettere che scrive a Hermine Moos, costumista del teatro di Monaco, Kokoschka annota indicazioni precise sulla realizzazione della bambola destinata a «compiacere tutti i sensi». La storia è il punto di partenza per Kokoschka, la fiancée du vent, il nuovo film di Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian che sarà presentato in anteprima al parigino Centre Pompidou, all’interno della personale dedicata ai due artisti che si apre oggi (fino al 15 novembre). Ce lo racconta in una lunga telefonata poche ore prima della partenza per Parigi, e con ancora tantissime cose da finire, Yervant Gianikian.

Angela che di Kokoschka è stata allieva dedica in questo omaggio al suo maestro, insieme al film, degli acquerelli da lei dipinti. Nei quali tra le immagini della casa di villeggiatura dei Mahler a Alt-Schuderbach nel Trentino Alto Adige, dove i due amanti si erano incontrati spesso, e quelle di Comerio con i combattimenti della Prima guerra mondiale, si ripercorre il «suicidio dell’Europa» che attraversa l’intera poetica di questi due magnifici esploratori del nostro tempo. Architetto Yervant, artista Angela, si incontrano seguendo le tracce di una rosa negli anni settanta, e da allora lavorano insieme, in un legame profondo e universale tra la loro ricerca artistica e l’esperienza dei vissuti. Oggi sono due dei più grandi artisti contemporanei anche se in Italia specialmente, a parte alcuni eventi (una personale all’Hangar Bicocca di Milano due anni fa) continuano a essere non abbastanza mostrati.Cosa ci dice la loro opera, cominciata coi film profumati, e continuata tra cinema, installazioni, dipinti, le diverse e possibili declinazioni delle immagini? Della nostra

Storia, del Novecento e dei suoi traumi, la guerra, il genocidio degli armeni che Yervant conosce nell’esperienza del padre deportato e rimasto solo dopo la morte della famiglia, del colonialismo, dei fascismi, del controllo sociale; una geografia del secolo scritta sui corpi dei tanti anonimi soldati, degli operai, di uomini e donne che lo hanno attraversato.
Lo spazio della loro «indagine» è l’immagine, il singolo fotogramma spesso dimenticato che con pazienza e con metodo reinventano. E se è l’immaginario è invenzione del mondo, nel loro lavoro si reiventa la Storia, cioè se ne rivelano le linee meno ovvie, invisibili: il passato è l’oggi, ci mostra con chiarezza le ragioni di nuove guerre, dei razzismi, la geopolitica del mondo globale. L’archivio per Gianikian e Ricci Lucchi non serve a riempire dei vuoti narrativi – come spesso accade adesso – al contrario crea (per questo lunedì prossimo riceveranno il premio Fiaf la Federazione internazionale degli archivi per l’insieme della loro opera). Al tempo stesso lavorano sul bordo di queste immagini espandibili in sala o in altri spazi, senza mutare la loro sostanza, la forza potente di seduzione ambigua del mondo.   

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La personale del Centre Pompidou appare come la più completa finora realizzata sul vostro lavoro. In che modo avete organizzato l’itinerario espositivo?

In realtà è stato quasi tutto organizzato dal Pompidou che ha voluto inserire anche i nostri primi film 8 millimetri degli anni Settanta. Alcuni fanno parte dei «film profumati» come li chiamavamo allora; li hanno tutti restaurati e dopo tanto tempo verrano di nuovo proiettati al pubblico anche se senza le essenze «odorose». Tra loro c’è il Film perduto, in 8 millimetri e poi in video. Alcuni rimandano al fascismo, ce ne è uno che abbiamo girato il giorno in cui è stato ucciso Pasolini, e poi al cimitero di Casarsa con una pellicola in bianco e nero scaduta, in cui abbiamo riconosciuto alcuni amici che erano lì con noi e che appaiono come dei fantasmi.

Raccontaci qualcosa dei film profumati.

Li portavamo in giro per l’America, era la metà degli anni Settanta, studiavamo le reazioni emozionali ai profumi e agli odori, e avevamo messo insieme un centinaio di essenze che degli apparecchi da noi progettati riuscivano a diffondere. Accompagnavamo ogni proiezione. Viaggiavamo con una grande valigia e delle bottiglione di alcol per far bruciare i profumi, ci fermavano sempre, pensavano che fossimo dei pericolosi ubriaconi. Ritrovare quei film è stato per noi molto importante. Abbiamo capito che le nostre riflessioni sulla violenza della storia, degli uomini, erano già presenti lì, in quegli 8 millimetri. Li raccoglievamo nei Cataloghi, uno di questi è lo studio su Cesare Lombroso, Sull’odore del garofano (1976) e A proposito di Lombroso, (1978). Avevamo ricostruito la collezione di armi, fotografie e maschere di cera raccolti da Lombroso nel suo museo a Torino, e nell’Odore del garofano che proiettavamo con l’essenza, la teoria in cui sostiene che i criminali, soprattutto le donne, hanno meno olfatto delle persone perbene. C’è un altro aspetto interessante in quel film: le teste dopo i restauri non hanno più lo stesso colore di quando abbiamo girato. Il film è diventato così un documento del loro aspetto «originale». Quelle teste criminali ci portano agli essere umani devastati dalla guerra di Oh Uomo!. È insomma come se i nostri temi, e insieme la nostra ricerca dentro il corpo delle immagini siano già lì.

Di cosa parlate invece nel vostro ritratto, «Où en êtes-vous, Yervant Gianikian & Angela Ricci Lucchi»?

È un cortometraggio, fa parte della collezione del Pompidou che ne realizza uno con ciascun artista invitato chiedendogli di raccontare i suoi progetti e i desideri. Anche qui siamo tornati sui luoghi del presente, l’Afghanistan, l’Iraq, Gaza e il Guatemala degli anni settanta, terre di massacri e di devastazioni economiche.

Continuiamo la nostra passeggiata nella mostra: ci sono dieci installazioni.

Due sono nuove, una fa parte dei Frammenti elettrici sugli zingari ed è montata su tre schermi. Nel primo siamo in Afghanistan nel 1978 prima dell’entrata dell’Armata Rossa. La carovana degli zingari, composta solo da donne, passa vicino ai Budda di Bamiyan che sono stati distrutti dai talebani. Nel secondo vediamo immagini girate in India nel 1936 da italiani e tedeschi durante una partita di caccia. Si filmano mentre uccidono e con la cinepresa «stanano» anche gli esseri umani. Nel terzo siamo a Sarajevo durante la guerra, nel ’95, la città è sotto assedio e la comunità rom elegge la ragazza più bella. Le abbiamo girate noi. L’altra installazione nuova che in realtà avevamo già mostrato a Berlino ritorna sul colonialismo fascista. Imperium, qui organizzata su quattro schermi mostra i rapporti tra colonialismo e capitalismo attraverso la presenza in Etiopia della Banca d’Italia, impiegati con cui controllare il Paese anche senza guerra. Poi ci sono La marcia dell’uomo, Il trittico del Novecento, Carrousel de Jeux, Terra Nullius, ancora colonialismo stavolta degli inglesi in Australia                                                                                                                                                                                                               

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Parliamo di «Film perduto» che è dedicato a Basaglia.

Lo avevamo spedito a Londra per una proiezione e non è più tornato, ma i negativi c’erano ancora. Abbiamo lavorato sull’archivio di un ospedale torinese. Le fotografie mediche mostrano le malattie delle donne, operaie e contadine che lavorano nelle risaie del vercellese, lavorano con le mani, con le braccia. Sono corpi feriti come quelli dei soldati nella Prima guerra mondiale.

Se dovessi dirmi cosa rappresenta per voi questa mostra?
Il diario della nostra vita, e insieme la scommessa di far vedere i nostri lavori in luoghi diversi e non solo nelle gallerie d’arte. Ci è anche piaciuto moltissimo riscoprire la libertà totale dei nostri inizi, delle piccole cineprese che portavamo in giro. In alcune immagini ci siamo anche noi, vediamo i luoghi in cui vivevamo allora, Angela che sembra una bambina.