L’introduzione del Dna come strumento probatorio per approdare a una risoluzione giudiziaria dei delitti più efferati rappresenta un’acquisizione relativamente recente (metà degli anni Ottanta). Il suo utilizzo continua però a destare non poche perplessità presso l’opinione pubblica e gli addetti ai lavori.
Da un lato, l’utilizzo dell’acido deossiribonucleico nei casi giudiziari ha rovesciato l’impianto investigativo, laddove la ricostruzione logica lascia spazio alla rilevanza empirica. Per questo motivo il Dna si è guadagnato presso l’opinione pubblica l’appellativo di «prova regina», una reputazione veicolata da serie televisive come Csi. Dall’altro lato, l’utilizzo di tecniche così specifiche, ancorché invasive della privacy individuale, ha destato significative perplessità, che investono in particolar modo la sfera legale-giudiziaria.

IN CHE QUANTITÀ il Dna raccolto costituisce materiale sufficiente? Quali sono le tecniche legalmente valide? Quanto è labile il confine tra scienza e presunzione di innocenza? Quest’ultima domanda risulta particolarmente insidiosa, alla luce del fatto che, al di là dei meri elementi probatori, casi come quelli di OJ Simpson o del delitto di Garlasco finiscono per produrre una contrapposizione fra innocentisti e colpevolisti. Se è vero quanto sosteneva Durkheim quando affermava che la pena è buona in quanto protegge la società e non il contrario, allora, come sostiene il noto penalista americano Alan Dershowitz, i processi non si vincono in tribunale, bensì nell’arena pubblica.

Gianfranco Bangone, nel suo ultimo lavoro La Prova Regina. Dna Forense e Celebri Delitti Italiani (Codice Edizioni, Torino, pp.192, euro 15), ha il merito di ricostruire queste contraddizioni. Scritto con uno stile illustrativo e analitico efficace, introduce il lettore all’interno della genetica e della sua relazione con la giustizia. Sin dal suo avvento, il Dna ha rappresentato un’inversione paradigmatica anche nel campo della criminologia, confutando una volta per tutte la presunzione lombrosiana di categorizzare l’uomo delinquente per gruppi etnici, classi sociali e patologie (vere o posticce) attraverso la genetica.

OGNI SOSPETTATO o colpevole possiede il suo Dna che lo rende identificabile. Se dal punto di vista scientifico questa acquisizione costituisce un notevole passo in avanti, non lo è sotto il profilo giudiziario. Esistono infatti due metodologie di acquisizione della «prova regina»: la prima è quella del cosiddetto low copy number, ovvero tracce di Dna esigue ma utilizzabili in un’indagine attraverso l’utilizzo di calcoli probabilistici. È stato proprio l’utilizzo di questa tecnica a far decidere la Cassazione sull’incertezza delle prove in merito al delitto di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia nel 2007, e a mandare assolti Amanda Knox e Raffaele Sollecito.

LA SECONDA TECNICA, utilizzata nel caso dell’omicidio di Yara Gambirasio, è quella del dragnet (reti a strascico), che consiste nell’applicazione estensiva dell’analisi genetica nella ricerca del presunto colpevole di un caso. In questo caso, la popolazione rappresentativa all’interno di un certo campione viene invitata a sottoporsi al prelievo di Dna al fine di recuperare le prove necessarie a risolvere il caso.
Il filo che collega tutto il libro riguarda lo scarto esistente tra scienza e diritto, tra il bisogno dell’opinione pubblica di trovare un colpevole e la tutela delle garanzie dell’imputato. All’interno di questa dialettica, l’uso dei campioni genetici trovati sulla scena del delitto finisce per essere la prova regina, per retrocedere al rango di catalizzatore della diversità di punti di vista tra le controparti. Per quanto l’accusa possa essere convinta di presentare delle prove inoppugnabili, la difesa potrà sempre opporre l’inadeguatezza della tecnica adottata o la tipologia di Dna prelevata. Inoltre, le giurie coinvolte nei diversi gradi di giudizio, disporranno del loro punto di vista in merito, confermando o ribaltando le sentenze.

INFINE, come nel caso dei delitti di Narborough, primo caso nella storia risolto attraverso l’utilizzo del Dna, senza una soffiata da parte di testimoni inaspettati, fornita in modo casuale, non sempre si riesce a seguire la strada giusta rispetto alla risoluzione del caso.

Queste dinamiche, ovviamente, si verificano sotto lo sguardo attento, e talvolta voyeuristico, di un’opinione pubblica desiderosa di rispecchiare e convogliare le proprie rappresentazioni, proiezioni e insicurezze all’interno del singolo caso.

La scienza, sin dai suoi albori, ha spesso finito per aumentare i problemi che credeva di avere risolto. È cosi anche nel caso del Dna. A pensarci bene, dal momento che c’è in gioco la presunzione di innocenza, è meglio che lo sia.