Chi ha letto Valori (Sellerio 2016), settimo romanzo di Clara Usón, si sarà certamente reso conto dell’abile gioco portato avanti dall’autrice: raccontare, mescolando fatti reali e immaginazione, storie distanti nel tempo e nello spazio, che sembrano non aver nulla a che fare l’una con l’altra e i cui fili, invece, si intersecano e si intrecciano, al punto da giustificare il «disordine» apparente della narrazione.
Sin dal suo debutto letterario con Noches de San Juan, nel 1998, Usón (nata a Barcellona nel 1961 e nota soprattutto grazie a un altro romanzo di grande successo, La figlia, sempre pubblicato da Sellerio) è andata definendo e raffinando questo procedimento di complessa «tessitura», fino ad arrivare al disegno quasi labirintico di L’assassino timido (Sellerio, pp.186, euro 15, traduzione di Silvia Sichel), la sua opera più recente e forse la più matura e personale.

IL PUNTO DI PARTENZA è la breve vita di Sandra Mozarovski – attrice del cosiddetto cine del destape, che tra la metà degli anni’70 e l’inizio degli ’80, venuta meno la censura franchista, sfornò innumerevoli pellicole ai confini del porno – morta diciottenne in un incidente mai chiarito (la vicenda, tra l’altro, nel 2013 ha attirato l’attenzione di un’altra scrittrice spagnola, Marta Sanz, che ne parla nel suo Daniela Astor y la caja negra), fonte di infinite voci su una presunta relazione con l’allora re di Spagna, Juan Carlos, dongiovanni compulsivo e ben protetto dalla discrezione dei media: voci di cui Usón dà conto, ma solo per constatare una volta di più la fragilità della versione ufficiale (la ragazza sarebbe caduta alle tre di notte dal balcone di casa, sporgendosi troppo mentre innaffiava le piante), anche se, tra le varie ipotesi, si fa largo quella che la splendida Sandra, forse incinta, si sia suicidata.

ED È PROPRIO LA FIGURA del suicida a giustificare il titolo – parafrasando Pavese, Usón lo definisce «un assassino timido» – e a sovrapporsi dopo poche pagine a quella di Sandra, prima attraverso la storia vera di due fidanzati che, nella Basilicata del 1975, si gettarono sotto un treno, e poi grazie a una girandola di citazioni letterarie e filosofiche, dalla quale emergono soprattutto i nomi di Camus, Pavese e Wittgenstein; sarà infine quest’ultimo a occupare con la sua superbia, le frasi lapidarie, l’attrazione per il gesto suicida mai consumato, la parte centrale del romanzo, condividendola però con la storia familiare di Clara, che intavola con lui una sorta di ironico contraddittorio e stabilisce continui e volutamente improbabili punti di contatto tra gli Usón e i Wittgenstein.
L’autrice ci regala così una trama continuamente spezzata, che rivendica sia l’accostamento di materiali alti e bassi, sia la discontinuità narrativa teorizzata da Cervantes: il lettore viene sbalzato dalla narrativa alla saggistica, dai conflitti di famiglia al ritratto di una Spagna della Transizione che, a suo tempo mitizzata, viene ora sottoposta a una revisione severa.

MA TUTTO TORNA, tutto si ricompone nell’ultimo capitolo, l’unico con un titolo («Vizio e perdizione»), in cui l’autrice, immaginando un proprio biopic interpretato da Mozarovski, ammette definitivamente che L’assassino timido è in realtà un’autobiografia per interposta persona, e, pur sfuggendo alle consuete convenzioni della «scrittura dell’io», depone le sue molteplici maschere per venire allo scoperto e ammettere ogni cosa, con asciutta e irresistibile ironia: sette tentativi di suicidio sempre contraddetti da una richiesta di soccorso, lunghi anni di dipendenza dai farmaci, le droghe del fine settimana che interrompevano la routine professionale della giovane avvocatessa Usón, le pastiglie mescolate all’alcol e a qualsiasi cosa si potesse porre tra sé e l’insostenibilità della vita, fino all’internamento in un centro di disintossicazione, alle crisi psicotiche, alla scoperta della scrittura come terapia e liberazione.

Sarà l’ostinazione della madre a trattenere Clara, a sventarne la vocazione suicida: una fortuna che non è toccata a Sandra Mozarovski, vittima sacrificale nella vita come nei film porno-horror in cui veniva violata e oltraggiata, mentre dal camicione bianco – quasi una divisa – affioravano i seni nudi, ad annunciare la pretesa di una nuova obbedienza da parte del corpo femminile, diversa da quella imposta da Franco, ma soggetta a norme altrettanto rigide.

E PROPRIO ALLA LUCE di questa incrollabile e inattesa tenacia materna, e dell’omaggio che Clara Usón le rende, L’assassino timido va letto non solo come un esercizio formalmente audace, come una riflessione filosofica sul suicidio, come il ritratto di una generazione in preda a un’ubriacatura esaltante quanto ingenua – quella dei giovani spagnoli usciti dalla gabbia del franchismo, e ancora ignari della futura trappola neoliberista –, come un viaggio iniziatico concluso dal classico «trionfo dell’anima sul male», ma anche come la storia della ritrovata solidarietà tra una madre che, nella Spagna del Generalissimo, ha dovuto vivere una vita decisa da altri (moglie obbediente, madre feconda, vestale della famiglia, priva perfino del diritto di aprire un conto in banca o di viaggiare senza il permesso del marito o del padre), cercando una via di fuga nell’alcol e in furie occasionali, e una figlia, Clara, rivoltosa, insonne, sempre in fuga, travolta da pulsioni autodistruttive.
Due generazioni di donne che si sono ricongiunte e comprese, e che si potrebbero prendere a simbolo dell’immensa forza dimostrata in questi anni dalle donne spagnole, che daranno filo da torcere, e molto, a chiunque voglia riportarle indietro.