Padri e figli, città e campagna, segreti e bugie sono i binari su cui scorre l’esordio del taiwanese Lungyin Lim passato in concorso al TFF. Filmato a colori in 16mm (la fotografia è del russo Alexander Elagin), Ohong Village è la storia di Sheng che, dopo aver passato sette anni a Taipei in cerca di fortuna, torna dai genitori in un piccolo villaggio della costa sud-orientale di Taiwan per assistere al matrimonio della sorella. Quando sbarca, vestito elegante come fosse un manager, viene accolto con rispetto e ammirazione.

Ma una camicia bianca e un vestito scuro non si negano a nessuno, non c’è bisogno di guadagnare milioni per indossarli e le apparenze non fanno che alimentare l’immaginario di chi è convinto che andare a vivere in città corrisponda immancabilmente alla via per il successo. Però, lo sguardo inquieto di Sheng e le enormità che racconta sui suoi stipendi stellari non incantano il padre, consapevole che il giovane, ormai più che trentenne, ha fallito e non sa come tirare avanti.

TRA I DUE si instaura un conflitto fatto di attese deluse, frustrazione, senso d’impotenza, rancore aggravato dalla difficile contingenza economica che la famiglia si trova a fronteggiare. I genitori di Sheng, infatti, hanno dedicato tutta la vita all’allevamento delle ostriche ma con i cambiamenti climatici e le continue inondazioni, i frutti di mare crescono piccoli o pieni di fango e parassiti con conseguenze drammatiche che fanno temere tutti per il futuro.

Padre e figlio sono agli antipodi: l’uno è il principio di realtà, che si danna per mare e per terra potando alberi, prendendosi cura del poco che possiede, pescando, allevando, coltivando, sacrificandosi fino a non poterne più; l’altro rappresenta una generazione smarrita, che ha studiato ma è rimasta irretita da promesse di cambiamento e ascesa sociale puntualmente disattese dal sistema economico e lavorativo con cui si è trovato a scontrarsi. Le sirene del successo che richiamavano i giovani a Taipei negli anni ’90 ora suonano lontane e sinistre e non resta che rivolgersi agli aruspici per sapere che ne sarà del domani o tentare, come Shu, di trarre profitto da un sistema capitalista che trasforma tutto in merce, e proporre ai turisti itinerari alla scoperta dell’autentica vita degli allevatori di ostriche.

LUNGYIN LIM immerge la costa in una luce sinistra e filma con sensibilità etnografica i riti e le celebrazioni del carnevale locale a base di fuoco: ogni fine è un nuovo inizio e mentre l’alta marea si ritira facendo sperare in un buon raccolto, le strade crepitano di giochi pirotecnici, le pire bruciano sulla riva dell’oceano per propiziare la reincarnazione del vecchio nel nuovo.
Allevare ostriche era invece una forma di emancipazione per le protagoniste del reportage Profession: conchylicultrice (1984) realizzato da Carole Roussopoulos, alla cui relazione con Delphine Seyrig è dedicato il film Delphine et Carole, insoumuses di Callisto McNulty che dopo la prima alla Berlinale 2019 è stato presentato nel focus desiderio del TFFdoc. Come le ostriche, anche gli uccelli sono indicatori di ciò che accade nell’ecosistema in conseguenza dei cambiamenti climatici.

Lo spiega El silencio que queda di Amparo Garrido, nella selezione del concorso internazionale documentari, che racconta lo straordinario mondo dei volatili con la guida dell’ornitologo non vedente Jose Carlos Sires, scoperto grazie a un articolo di giornale inviato alla regista spagnola da un amico prima di morire.

SIRES permette al film di intrecciare un interessante rapporto tra immagini naturalistiche che lui non può vedere e la stratificazione sonora che nutre la sua passione. Infatti, mentre lui ascolta canti e richiami immerso nell’acqua o nel bosco, conduce seminari o spedizioni in mezzo alla natura, parallelamente Garrido si reca in oasi e rifugi guidata da lui e dai suoi messaggi vocali. Un invito all’ascolto del mondo, delle cose e delle persone che ci vivono accanto.