«I testi riuniti qui non sono disposti in ordine storico o cronologico. Questo per l’opinione dell’autore che tutta la pittura abiti in una contemporaneità»: così, con un’avvertenza segnata a margine, si apre l’ultimo splendido libro di Ruggero Savinio, Il senso della pittura (Neri Pozza, pp. 316, euro 15,00).

Che quest’ultima appartenga «a un tempo fuori dal tempo, o meglio a un tempo che li contiene tutti» l’artista e scrittore d’illustre genìa — è figlio di Alberto Savinio e nipote di Giorgio De Chirico — lo aveva già asserito nel raffinato Il cortile del Tasso (Quodlibet 2017) e lo rende manifesto nei suoi dipinti, sassi levigati che emergono rivelando un’immersione a pieni polmoni nel flusso di una tradizione: i veneti, Correggio, Munch, certa Scapigliatura e certi pittori suoi coetanei, innumerevoli i rimandi, ma rimodulati da chi ha saputo estrarne la sua, di voce.

Avvicinarsi a Savinio pittore significa imparare a riconoscere ed amare questo particolare colore dell’anima — malinconico eppure soave, distante e abbandonato —, generato dal rinnovato incontro tra materia e figura: tradotta in pennellate palpitanti, la prima rivela il suo incessante farsi e disfarsi attraverso la seconda, miracolosamente trascendendo la rappresentazione e schivando il simbolo. Il nutrimento da cui il tono di Savinio trae la sua ricchezza timbrica si materializza in questi trenta ritratti di pittori che si susseguono animosi e svagati, come se l’artista ci stesse accompagnando nella sua «galleria interiore», ma talvolta si fermasse a guardare i quadri dimenticandosi di noi — e perfino di se stesso.

Primo merito del Senso della pittura sta nel far emergere il profilo di Savinio attraverso l’ombra proiettata sui pittori prediletti: pittori d’ogni epoca e luogo, ma uniti dalla comune virtù nel creare una continuità tra figura e sfondo, stile e abbandono, lavorìo di costruzione e disfacimento dell’immagine. Si respira un’aria nordica, d’Italia settentrionale, perché Savinio si identifica sopra ogni cosa in chi ha distrutto la linearità della griglia disegnata di stampo fiorentineggiante: di Piccio rincorre «un segno sfrangiato, dai contorni erosi, che non definisce le forme chiudendole in una gabbia, ma le lascia respirare», segno di cui ritrova tracce in Ranzoni e in Fontanesi, ammirato quest’ultimo per la costruzione di un «fondo materiale e magmatico da cui le figure non riuscivano a districarsi del tutto».

È una predilezione formale che rivela una scelta etica, poiché alla sfrangiatura corrisponde un preciso sentimento: «Che cosa sottintendono la sfrangiatura e l’erosione dei contorni? Oltre all’esitazione dovuta, forse, all’urgenza dell’espressione, anche la volontà di accogliere tutto il mondo contenuto nello spazio avvolgente, e anche, quindi, nella natura». Quest’accoglienza è la base per la nascita di un pittore, ciò che lo spinge a portare avanti una battaglia con la forma che lo vedrà avanzare con «mente zen, mente di principiante».

E il libro è anche questo, una riflessione sulla natura della propria disciplina: «Qual è il senso della pittura?», questo l’interrogativo che sembra porsi incessantemente l’autore. Traduzione materica dell’«accordo del pittore con l’infinita mobilità del tutto» (nel linguaggio cinese chi, soffio), corpo di un’ossessione sovente descritta con termini relativi alla sfera del desiderio: così appare la Pittura secondo Savinio, cifrata nella menzione della Venere che benda amore di Tiziano in coda al volume.

Ma la dichiarazione di poetica più affilata è racchiusa nei saggi su Bonnard e Derain, dove viene teorizzata la differenza tra la pittura come mezzo e la pittura come fine. Mentre la prima costruisce sé stessa attraverso la citazione e il distacco ironico (e non si può non pensare a Savinio padre e allo zio De Chirico), la seconda ricerca l’assoluto all’interno della pittura, il che porta l’artista a confrontarsi con l’idea del fallimento. È in questa «pittura dello scacco» — o dell’esitazione, come viene suggerito nel saggio su Bonnard — che Savinio si identifica, e alla quale riconduce i suoi pittori otto-novecenteschi, inevitabilmente contemporanei e dunque ricchi di futuro: da Hans Von Marées a Sironi a Rouault, fino al Derain degli ultimi anni… Eppure il fascino del Senso della pittura non risiede solo nella materia.

Come sempre Savinio si muove con agilità tra generi diversi, costruendo un’auto-etero-biografia che include a un tempo la memoria della pittura e quella della vita e dei luoghi. Se nel Cortile del Tasso una Roma antimonumentale dominava la scena, in queste pagine lo sguardo si apre alle molte città italiane visitate e alla Parigi vissuta da giovane, alla ricerca di una propria autonoma identità pittorica. Il ricordo di mostre, incontri, cose viste si lega senza soluzione di continuità al racconto della vita degli artisti, avvicinati per obliqua tangenza, in modo non dissimile dal Narrate, uomini di Alberto Savinio (ma con un’equanimità molto distante dalla dolcezza e perfidia dei ritratti del genitore).

Più di ogni altra cosa, Il senso della pittura è un libro di dettagli; intravediamo l’occhio del pittore che indugia su quadri amati magari solo per un particolare modo del pennello di punteggiare d’azzurro lo spazio della tela, o tradurre in colori un lembo di stoffa: tracce del «tempo che vi s’incorpora, e che, solo, dà all’immagine pittorica una sua verità».