Samuel, Sara e Juan vivono in una favela guatemalteca e, come un’altro mezzo milione di persone che ogni anno prova ad attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti, sognano di arrivare a Los Angeles e di trovarvi una vita migliore. Appena adolescenti e senza niente da perdere, intraprendono un viaggio in treno lungo e pericoloso al quale si aggiunge Chauk, un giovane indio tzoztil che non parla spagnolo e che altera gli equilibri del gruppo. Dopo un’umiliante perquisizione di poliziotti messicani, Samuel abbandona il progetto e nel nuovo trio si stabilisce un equilibrio difficile che ruota attorno all’attrazione di Juan e Chauk per Sara. La diffidenza iniziale verso Chauk e la rivalità che Juan nutre nei suoi confronti è la rappresentazione ridotta e intima di uno degli aspetti fondamentali della problematica macroscopica che affronta il primo lungometraggio di Diego Quemada Diez: l’immigrazione come confronto e accettazione del diverso. In questo assetto narrativo, che vede protagonisti della terribile epopea proprio tre adolescenti, risiede la prima grande virtù de “La jaula de oro”.

La loro storia, raccontata in modo magistrale da Diego Quemada Diez, che firma il suo primo lungometraggio è, a detta dello stesso regista, la condensazione di centinaia di racconti di immigrati da lui stesso raccolti. “Il cinema deve raccontare la realtà, e quella dell’immigrazione illegale è tragicamente attuale” afferma Quemada Diez, amante del Neorealismo e della Nouvelle Vague. Il regista spagnolo, stabilitosi in Messico, ammette poi la tensione autobiografica del soggetto “Io stesso sono emigrato dalla Spagna agli Stati Uniti, ed ho finito per stabilirmi in Messico”. Rispettoso nello stile a quel “compromesso con la realtà” che resta il più importante tra gli insegnamenti di Ken Loach, con il quale lavorò nel 1995 come assistente operatore nel fondamentale “Terra e Libertà”, il regista afferma che nel film la camera è intenzionalmente posta all’altezza degli occhi dei protagonisti e che la narrazione segue l’ordine cronologico della vicenda, proprio perché gli attori “vivano” l’esperienza dei fatti narrati, più che recitarla; applica così una regia indiretta, tacendo agli attori la trama della vicenda e offrendo loro la possibilità di essere il più spontanei possibili.

Ogni dettaglio superfluo o possibile indugio stilistico è bandito sin dalle prime sequenze in cui si presentano i personaggi: un’energica camera a spalla segue Juan mentre si aggira spavaldo nei vicoli della favela dove vive e si prepara alla partenza cucendo un centinaio di dollari dentro il cintolo dei suoi jeans. Porta un paio di vistosi stivali da cowboy su cui si poseranno gli occhi dei poliziotti messicani che lo incarcereranno per averlo colto senza documenti. Sara, invece, ha altro di cui preoccuparsi: la vediamo entrare in una toilette, tagliarsi i lunghi capelli neri, nascondere il seno sotto una fasciatura stretta e prendere comunque la pillola contraccettiva prima di indossare un berretto da baseball e disfarsi senza troppe esitazioni della propria identità femminile. I suoi tratti delicati incuriosiscono uno dei coyotes (trafficanti di immigranti clandestini) che intercettano il treno su cui viaggiano insieme a centinaia di immigranti e lo fermano per fare una scrematura, separare le donne dagli uomini. Sara viene presa con la forza, Juan e Chouk provano a difenderla mentre scompare dentro una jeep dai vetri oscurati.

Da quel momento la mancanza dell’amica li unisce rendendoli inseparabili. Ancora la camera a spalla che segue il movimento pesante e faticoso della locomotiva, come lo sguardo di chi del treno conosce esclusivamente il tetto, occupato da centinaia di immigrati reali; lungo il percorso della ferrovia si muove anche la troupe per girare in locations sempre reali e nuove, per registare i luoghi dell’odissea degli immigranti sudamericani. Il regista ammette che lavora al progetto dal 2003 ma che le sue scelte documentaristiche, operate in seno alla volontà di rendere tributo a tutti gli immigrati che gli hanno raccontato la propria storia, implicavano alti costi e rischi tangibili alla produzione (quasi interamente messicana). “Mi ha sempre interessato la contaminazione tra documentario e finzione, o la finzione basata su fatti reali; il film è il tentativo di raccontare l’esperienza migratoria da un punto di vista altro, che non si limiti a trattare la militarizzazione della frontiera degli USA.

La scelta di affidare la parte drammatica ad una figura adolescente assicura l’immedesimazione dello spettatore.” La purezza, la sfrontatezza e la proverbiale crudeltà dell’infanzia, specialmente di quella costretta a crescere troppo in fretta, addolciscono la narrativa schietta del film e palpitano nell’interpretazione perfetta dei tre giovani protagonisti, selezionati tra seimila ragazzini e che, come nella tradizione del miglior cinema sociale e umano, non sono attori professionisti.

Del resto, pur appartendo al genere della non fiction, “La jaula de oro” è un film artistico: la ciclicità del viaggio che ricomincia tra mille difficoltà dopo brusche e violente interruzioni, pervade tutta la pellicola e il regista si concede un respiro poetico inserendo un breve quadro che appare nei momenti cruciali della storia. È un cielo visto dal basso dal quale scende una neve sottile, sublimazione filmica del desiderio dei protagonisti di conoscere l’ignoto. Lo stesso regista spiega: “Volevo che il film avesse un accento poetico, che ho ottenuto attraverso il contrasto di certe immagini, di giustapposizioni nel sonoro, di metafore e, come nel caso della neve, nella ripetizione di un quadro e di un suono, come se si trattasse di una rima in poesia.

Mi sono ispirato a “Il settimo continente” di Mikael Haneke, con l’immagine della spiaggia che si ripete apparentemente senza motivo. Qui è la neve a riapparire e a collocarci in uno spazio onirico, nel mondo interiore, astratto, vicino all’ideale al quale tutti cerchiamo di arrivare, vicino alla poesia, e all’eternità, alla luce nell’oscurità. Cosa sarebbe la vita senza il mistero, la poesia, senza la magia o l’arte? Tutti gli immigrati con i quali ho parlato, avevano un sogno materiale, ma a un certo punto ne incontrai uno che mi disse di voler vedere i fiocchi bianchi che cadevano dal cielo, che qualcuno gli aveva raccontato che al nord succedeva, ma che nel suo paese d’origine faceva troppo caldo…

Mi ricordo che piansi e sentì l’innocenza del sogno del bambino che è dentro ognuno di noi, come quando abiti lontano dalla costa e vuoi vedere il mare per la prima volta e, quando lo vedi, diventa la cosa più bella che ti sia mai successa. Poi pensai di assegnare questo sogno al protagonista indigeno, affinché la sua cosmogonia più poetica acquistasse un altro elemento di contrasto con la visione materialistica, egoista e opportunista del suo compagno di viaggio, meticcio e con gli stivali da cowboy. Tutto sommato il mio vuole essere anche un film d’avventura, un western, un film di cowboy e indiani; un film politico e di genere, i cui protagonisti fossero dei bambini.”

Senza tirarsi indietro, Quemada Diez li accompagna fino all’altro lato della frontiera, dove altre centinaia di immigrati ugualmente miserevoli e disperati sopravvivono lavorando in un mattatoio. La metafora degli immigrati come carne da macello che viene sfruttata al massimo per poi essere gettata e abbandonata per terra come una sporcizia malodorante è il colpo di grazia per lo spettatore. “La jaula de oro” attinge quindi dai classici il suo emozionante tono poetico, ma sa infonderlo nella trattazione del reale e il risultato non può lasciarci indifferenti: è un progetto molto ambizioso e perfettamente riuscito, ma cosa ci aspettiamo dal giovane ispano-messicano per il futuro? “Il prossimo progetto, al momento ancora in fase di scrittura, si basa sulla stessa idea di partire da una ricerca su una particolare realtà contemporanea e plasmarla in una finzione capace di aprirci gli occhi e ispirarci a crescere e a creare un mondo più giusto. I media e i governi ci fanno credere che non possiamo, ma gli artisti, i musicisti e i poeti hanno dimostrato spesso che non è così. Dobbiamo prima guardarci allo specchio e imparare a sentire e vivere tutto, l’allegria e il dolore, la vita e la morte”.

Proprio come nell’ultima scena: nella città industriale statunitense, la neve non scende più leggera, a fiocchi, sugli occhi di chi la sogna, ma invade con la sua silenziosa presenza la grande strada anonima e male illuminata.