Il primo contendente è Recep Tayyip Erdogan. Arrabbiato e muscolare, di questi tempi. È in affanno a causa di inchieste sulla corruzione che toccano i gangli del suo sistema di potere e della sua stessa famiglia. Arrivano alla vigilia di un ciclo elettorale importante: amministrative a fine mese, presidenziali in agosto, politiche nel 2015. Il secondo contendente è Twitter, la famosa piattaforma web di messaggi micro: i cinguetti da 140 caratteri, non uno in più.

Nelle scorse ore l’acceso al sito è stato bloccato in tutto il paese sulla base di alcune decisioni della magistratura che seguono a stretto giro di posta le parole focose che Erdogan ha snocciolato in un comizio: «Sradicheremo Twitter». L’azienda americana ha messo in campo una contromisura, spiegando ai suoi utenti turchi come dribblare il bando. In sostanza si può mandare un messaggio di testo, con un codice a precedere il cinguettio, a seconda dell’operatore telefonico a cui ci si appoggia. Ci sono poi altre opzioni, ma qui si va sul raffinato. In ogni caso s’è continuato, benché a bassa intensità, a cinguettare.

La società di micro-blogging si muove anche sul piano legale. Ha ingaggiato l’avvocato Gonenc Gurkayank. È un legale rispettato, che lavorò anche sul caso Youtube, quando nel 2008 Ankara lo oscurò a causa di video, pare confezionati da greci, che bollavano i turchi e Ataturk, fondatore della Turchia moderna, come omosessuali. Il divieto fu rimosso nel 2010. Ora, si sussurra, Erdogan potrebbe colpire nuovamente Youtube, come Facebook.

Insomma, nel mirino ci sarebbero tutti i social. Ma il braccio di ferro tra il potere politico e quello della rete, capace di monopolizzare l’attenzione della stampa e costato a Erdogan una copiosa grandine di critiche internazionali, è solo un granello della tempesta di polvere che ha investito la Turchia. In corso c’è una guerra giudiziaria azionata dallo scontro feroce tra Erdogan e Fetullah Gulen, il predicatore islamico autoesiliato negli Stati Uniti che guida Hizmet. È un’organizzazione civile-religiosa con ramificazioni nei media, nel business, nella polizia, nella magistratura e nell’istruzione.

Erdogan e Gulen hanno marciato a lungo insieme. Il secondo ha contribuito al progetto del primo: portare al potere l’Islam politico, sancendone il passaggio dall’antagonismo al riformismo conservatore e coniugando fede e democrazia. Gulen ha messo al servizio di Erdogan e del suo partito, l’Akp, il vasto seguito di Hizmet, con lo zoccolo duro della classe media. I successi elettorali del 2002, del 2007 e del 2011, ognuno più chiaro dell’altro, hanno indotto l’Akp a lanciare il guanto di sfida alla casta militare, guardiana dell’ortodossia laicista voluta da Ataturk. Ne è stato ristretto il raggio d’azione con una serie di processi. In questo è stata decisiva la sponda dei giudici gulenisti.

Che adesso si sarebbero scagliati contro Erdogan, ormai indigesto al capo di Hizmet. La gestione di Gezi Park, lo squarcio apertosi nei rapporti con Israele, la politica estera mediorientalista e altre cose ancora hanno fatto deragliare a suo dire il «modello turco».

La guerra giudiziaria è cominciata a dicembre, con un’inchiesta sulla corruzione che ha portato in cella i figli di tre ministri dell’esecutivo. L’indagine ha lambito anche Bilal, rampollo di Erdogan. Che, imbufalito, ha fatto piazza pulita nei corpi inquirenti della polizia e nella magistratura, con declassamenti e nomine che hanno ridisegnato in senso favorevole all’Akp gli assetti di questure e procure.

La tesi di Erdogan è che Hizmet voglia distruggerlo; quella di Hizmet che Erdogan è in preda a deliri di onnipotenza. Intanto di recente è filtrata sui social network l’intercettazione, dalla veridicità non confermata, di una telefonata tra Erdogan e suo figlio Bilal, in cui si parla di soldi, da nascondere. Molti ci vedono lo zampino di Gulen. È questo il casus belli dell’affaire Twitter, capitolo minore di una guerra che sta dilaniando i due poli dell’Islam politico turco. Il 30 marzo c’è il banco di prova delle amministrative. Erdogan sa che l’economia, dopo anni ruggenti, sta rallentando.

Altro problema non da poco. La sua tattica, davanti a tutto questo, è chiara: polarizzare l’elettorato, parlare alla pancia, denunciare il complotto di Gulen e i social, indici di una modernità fuori controllo, dai tratti profani. Non è detto che il gioco riesca.

Ieri il presidente Gul, il più fedele compagno di strada di Erdogan, ha lasciato trapelare un po’ di dubbi. Con un tweet, nel giorno in cui non si poteva cinguettare. Questo tweet: «La completa chiusura dei social media non può essere approvata».