Torna puntuale ogni anno (l’attuale segna il 101° dalla fondazione) la stagione classica al teatro greco, e l’Istituto nazionale del dramma antico ha preso ormai la consuetudine dei tre spettacoli ogni volta, un vero e proprio festival. Rinnovati gli organi statutari,è ora sovrintendente Gioacchino Lanza Tommasi, e Valter Pagliaro consigliere delegato. E i tre spettacoli che ora si alternano sono davvero rappresentativi di modi diversi di fare e intendere il teatro.

Paolo Magelli ha scelto per i suoi attori (in buona parte componenti della compagnia stabile del Metastasio, ma con partecipazioni di smalto come Filippo Dini e Francesca Benedetti), un testo latino, la Medea di Seneca. Più fedeli, almeno nelle fonti, alla «magnagrecità» originaria del luogo, Federico Tiezzi con l’euripidea Ifigenia in Aulide, e Moni Ovadia con Le supplici di Eschilo. È toccato proprio a quest’ultimo inaugurare il susseguirsi degli spettacoli (in programma a turno fino al 28 giugno). E l’artista ha mostrato come si può essere coerenti al proprio linguaggio e alla propria poetica anche percorrendo un territorio sconosciuto rispetto ai suoi soliti.

Ha scelto, Ovadia, di rintracciare al millimetro nella tragedia delle Danaidi greche prigioniere degli egiziani, al cui salvataggio si impegna l’esercito di Argo, la condizione contemporanea di tutte le donne (e dell’umanità intera) oppresse da una dominazione straniera e tirannica, tanto che è impossibile, in certi momenti, non ritrovare sul palcoscenico la tragedia nigeriana di Boko Haram. Nello stesso tempo ha dato fondo alla caratteristica principale del suo teatro, la musica, anche se l’intervento dell’autore ed esecutore Mario Incudine si allarga a tratti in maniera quasi incontrollata.

Il musicista stesso appare all’inizio in veste di cantastorie sul classico carretto siciliano, ma poi torna, guida i cori, suona strumenti e orchestra una sorta di tarantella generale. La musica finisce per sovrastare la tragedia e il suo stesso racconto, come forse anche gli abiti di foggia africana, e i movimenti stessi delle giovani attrici mascherate (è irriconoscibile anche la corifea Donatella Finocchiaro). È bello sentir parlare in scena di diritto e di democrazia, ma il gigantismo del teatro greco sembra ad ogni istante in procinto di mangiarsi anche loro, e il loro significato.

È un problema questo, non secondario nell’avvicinarsi al mistero tuttora «sconosciuto» del teatro antico, che ha ben presente Federico Tiezzi, che si avvicina quasi con pudore alla castità maldestinata di Ifigenia in Aulide. La figlia di Agamennone, bloccato da lungo tempo in quel porto con tutti i suoi eserciti che dovrebbero assalire Troia, viene reclamata dagli dei come vittima sacrificale, per smettere di alitare quella micidiale bonaccia. Un bel dilemma per il re, diviso tra l’onore familiare da difendere andando a riprendere la cognata fedifraga Elena, e il dramma di sacrificare la figlia, e affrontare le furie coniugali di Clitennestra (che in fondo di Elena era pure sorella…).Non sembrino temi «intimistici», perché perché la loro ricaduta storica e politica è per tutti materia dei primi studi in occidente, a cominciare da Omero. E del resto (grazie anche a un notevole cast) la regia è nitida e decisa su personaggi e visioni: in uno scambio interpersonale che approfondisce le parole (molto bella la traduzione di Giulio Guidorizzi), e le inscrive nello spazio più ampio della collettività.

Le immobili navi disposte da Pier Paolo Bisleri «a babordo» di una navigazione impossibile, parlano con i costumi preziosi disegnati da Giovanna Buzzi. E gli squarci figurativi rinascimentali e manieristi, danno ai personaggi quella dimensione incrociata tra quotidiano e trascendenza, per quanto perduta. Il coro (per voce di Francesca Ciocchetti e Debora Zuin) dà spessore a rapporti impossibili e interessi contrastanti: Elena Ghiaurov è una Clitennestra sospesa tra divinità e glamour, e l’Agamennone di Sebastiano Lo Monaco libera l’attore dei suoi eccessi, rinchiudendolo dentro l’armatura del dolore e della scelta.

Lucia Lavia, protagonista sacrificanda, passa dall’ignara verginità alla coscienza dell’orrore, mentre Francesco Colella dà concreta umanità al ruolo sempre ambiguo e calcolatore di Menelao. Eppure, che quella tragedia collettiva ci riguardi è certo: violenza e impotenza si combattono per dare un lampo accecante al momento del sacrificio, quando una nuvola inghiottisce la vittima e l’orrendo tagliagole in nero. E fa paura, anche se sappiamo che una cerva si sostituirà alla fanciulla, e che la ritroveremo in Tauride, solo pochi anni dopo.