Un milione e 800mila iracheni rifugiati da gennaio, tanti quanti l’intera popolazione della Striscia di Gaza. Certi numeri descrivono l’avanzata dello Stato Islamico tra Siria e Iraq, il dramma dei profughi sunniti, yazidi e cristiani, l’emergenza che accompagna la loro fuga verso il Kurdistan iracheno. Dietro i numeri, stanno le vite di ogni rifugiato, la perdita della comunità, la famiglia, il lavoro. Sono quelli per cui la comunità internazionale ha detto di voler mettere in piedi una coalizione per frenare l’offensiva islamista.

Sono quelli che hanno riempito i telegiornali nei giorni dell’assedio di Sinjar: 5mila di loro sono morti, 7mila – soprattutto donne – venduti come schiavi al mercato. Andavano salvati, ci hanno detto i governi occidentali. Ma adesso che sono in Kurdistan, pare che la missione sia terminata. Eppure l’emergenza non è cessata. Sono ancora 700 le famiglie yazidi intrappolate a Sinjar, circondate dalle bandiere nere dei miliziani islamisti.

Sul campo le Ong internazionali cercano di arginare l’emergenza. La metà dei quasi due milioni di profughi ha trovato rifugio in scuole, campi ancora da completare, edifici pubblici nella regione autonoma del Kurdistan. Migliaia di persone non hanno avuto la stessa fortuna e vivono per strada, sotto i ponti, dentro palazzi in costruzione. Oltre 465mila si trovano a Dohuk, in condizioni di estrema povertà: «Oltre a Dohuk siamo attivi anche a Sharia e Zakho, dove la maggior parte dei profughi è concentrata – spiega al manifesto Giuseppe D’Andrea, coordinatore di Medici senza Frontiere in Iraq – Lavoriamo in un insediamento informale, Dabin: cinque torri da dieci piani con 7mila persone all’interno. Altri campi ospitano 5mila persone, per lo più yazidi da Sinjar, in tende non organizzate».

Chi non trova posto nei campi, finisce sotto i ponti. Come quello di Dalal, nella città di Zakho, un antico ponte in pietra che oggi è casa a 5mila profughi di Sinjar. Le tende sono allineate sotto l’arco, intramezzate da qualche latrina. «Ci concentriamo sui rifugiati più vulnerabili. Non tutti si trovano nei campi. Le torri sono palazzi fantasma, solo pilastri, senza muri, completamente alla mercé delle intemperie. Lo spazio è pochissimo: immaginate 5 palazzi con 7mila persone, ci sono tra le 100 e le 200 famiglie per piano. È scioccante. Difficilmente ho visto altri profughi in tali condizioni».

Tra le famiglie di Dabin c’è quella di Ahmed, insegnante a Sinjar. I trenta membri di quel nucleo familiare allargato condividono quattro stanze al sesto piano di uno dei palazzi fantasma. Intorno si continua a lavorare: gli operai scaricano dai camion i materiali da costruzione e li issano ai piani superiori. Le venti latrine disponibili sono tutte a piano terra. Sotto scorrono le acque reflue, a cielo aperto. Per non passarci sopra i profughi hanno posto delle passerelle di legno, ma diarrea, infezioni della pelle e problemi gastro-intestinali affliggono sempre più rifugiati.

Cibo e acqua non mancano. A mancare sono i bagni e rifugi dignitosi, che fanno crollare il livello delle condizioni igieniche: «Le toilette sono state portate due settimane fa, circa 50, ma non bastano – riprende D’Andrea – Msf sta costruendo docce e bagni [100 latrine e 100 docce, ndr] ma ne servono molte di più. I profughi vanno dove possono, lungo le strade, sotto gli alberi, nelle case in costruzione, in ogni luogo che possa proteggerli dal sole. Ma a breve, tra un mese, cominceranno le piogge e il freddo invernale».

Una preoccupazione che attanaglia anche Dalal: «Non ci sono finestre e non abbiamo abbastanza coperte. Come sopravvivremo alle temperature gelide?». Condizioni di vita lontane anni luce dalla vita di prima. In mezzo, un viaggio accidentato: «Parlo con loro per capire quello che hanno passato durante il tragitto per arrivare qui – ci dice D’Andrea – La maggior parte di loro viene da Sinjar dove noi di Msf eravamo presenti a luglio, nell’ospedale locale. Quando il 3 agosto i gruppi armati sono entrati e la gente è scappata sulle montagne, abbiamo mantenuto i contatti con i medici. Dopo una settimana, hanno camminato sette ore per arrivare in Siria quando hanno aperto il corridoio umanitario. Molti di loro, una volta raggiunta la Siria, sono rientrati da nord nel Kurdistan iracheno. La popolazione kurda è stato il primo attore umanitario ad intervenire, aiutandoli con trasporti, cibo, acqua. Arrivavano qui con molte bruciature dovute al sole o con problemi ai piedi per le distanze percorse. Molti sono ancora traumatizzati: ogni famiglia ha perso almeno un membro».

Ma nonostante gli aiuti, l’emergenza è esplosiva: il numero di profughi è elevatissimo e sta costringendo le autorità kurde a completare in fretta i campi, per poterci trasferire i rifugiati che vivono nelle scuole e far ripartire l’anno scolastico. Dall’inizio di agosto, le scuole di Dohuk sono chiuse, trasformate in rifugi improvvisati. A Sharia sono oltre 3mila le persone alloggiate negli istituti scolastici. Ma per i bambini profughi la scuola è un miraggio. Malican ha 10 anni. È fuggita con la famiglia da Hatare: « Qualche giorno fa ho incontrato il mio insegnante e gli ho domandato quando avremmo ricominciato le lezioni – racconta – Mi ha detto che per ora le scuole a Hatare non riapriranno, è troppo pericoloso. Ma quello che mi manca sono i miei amici. Mi manca Madeline, non so dove sia ora, mi manca giocare con lei».