Scrivo da un treno freddissimo che viaggia con le luci spente. I passeggeri sono accalcati gli uni sugli altri, hanno bagagli voluminosi, sacchetti pieni di cibo e gli occhi stanchi di chi non dorme da molte notti. I bagni sono irraggiungibili per via della calca.

Per fare i propri bisogni ci si deve arrangiare nel piccolo pertugio delimitato da due porte di ferro che permette il passaggio da un vagone all’altro.

La destinazione è Chmel’nyc’kyj – un luogo dove la gran parte di queste persone non avrebbe mai pensato di dover andare, ma che ha il vantaggio di essere sufficientemente vicino a Lviv (Leopoli), sulla strada verso l’occidente.

È questa l’Odissea dei profughi ucraini in fuga da Kiev. Nella grande stazione della capitale i convogli sono letteralmente presi d’assalto. Tutti si lanciano sui treni migliori – quelli per Lviv o i diretti per il confine polacco. La gente urla e si spintona, e in molti restano a terra. Chmel’nyc’kyj è una sorta di compromesso: per ora arriviamo fin lì, poi si vedrà.

La Kiev che ci siamo lasciati alle spalle è ormai una città fantasma. I negozi sono tutti chiusi, le strade vuote, i semafori lampeggianti. Ci abbiamo trascorso una settimana, sufficiente per renderci familiare il miagolio lugubre dell’allarme aereo. Ogni notte suona almeno quattro o cinque volte, nel silenzio immobile delle strade deserte.

Maidan, la piazza dove nel 2013 scoppiò la rivoluzione, è oggi occupata in buona parte da un immenso posto di blocco. Le uniche presenze visibili sono quelle dei militari in assetto da guerra.

Vicino alla cattedrale di Santa Sofia c’è la distribuzione delle armi ai civili. I kalashnikov sono visibilmente vecchiotti, ma sembra che nessuno ci faccia caso. Con l’Ak viene consegnata anche una fascia gialla da mettere al braccio: è l’emblema della «Difesa territoriale», la nuova milizia voluta da Zelensky.

Igor, che deve aver superato la sessantina ormai da un pezzo, era uno dei neoarruolati di ieri: «Questa è la mia città, non l’abbandonerò nemmeno se dovessero raderla al suolo – ci ha detto sorridendo – In tanti se ne sono andati, ma io no. Quando arriveranno i russi sarò qui ad aspettarli».

In generale, lo spirito combattivo è molto alto. I vecchi cartelloni pubblicitari sono stati sostituiti con grandi scritte che invitano i soldati russi ad andarsene e abbandonare le armi. «Putin fottiti!», si legge su un muro.

Pronunciare la parola «Kiev» – alla moscovita – invece di «Kyiv» – secondo la pronuncia ucraina – è una gaffe che può costare più di qualche sguardo gelido. Il nervosismo, giustificatissimo, c’è e si respira costantemente nell’aria.

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Sergio, che ha lavorato per anni con le aziende del nostro Paese e parla un ottimo italiano, è uno dei pochi che ha deciso di restare pur senza impugnare le armi.

Oggi vive nel sotterraneo di un caseggiato del centro, con due bottiglie d’acqua, qualche sacchetto di cibo e un paio di materassi buttati sul pavimento: «Qui a Kiev c’è tutta la mia vita – sorride -, che dovevo fare?».

La paura più grande è ovviamente quella delle bombe. Tutti sono rimasti sconvolti dalle immagini dei bombardamenti su Kharkiv. Ci si chiede: Putin farà lo stesso anche a Kiev?

Per ora le vie del centro sono state risparmiate. Qualche ordigno è caduto tra Podil e Lavra, ma si è trattato di episodi isolati: i russi – dicono – volevano colpire gli edifici dei ministeri. Forse hanno sbagliato mire. Dove si combatte sul serio è a nord, lungo la cintura urbana, vicino all’aeroporto.

Il villaggio di Bucha è il più conteso: per raggiungerlo da sud bisogna attraversare i resti di un ponte distrutto, risalendo la lenta marea di sfollati che si accalca senza sosta.

I boati della battaglia sono così forti che si sentono fino a venti chilometri di distanza. A Obolon, poco più a nord del centro di Kiev, i russi sono arrivati alcuni giorni fa e sono stati respinti. Oggi i cittadini del quartiere scavano trincee e fabbricano bottiglie Molotov.

Anche l’ospedale pediatrico Ohmadet è stato colpito dalle bombe. Qui, a poca distanza dalla stazione, sono ricoverati circa trecento bambini, quasi tutti affetti da gravi patologie o reduci dalla sala operatoria. Sgombrarli non è stato possibile, li si è dovuti trasferire nelle cantine.

Oggi vivono lì, sdraiati sul pavimento in terra battuta. I medici assicurano che non si potrà resistere a lungo in simili condizioni: «La situazione igienico-sanitaria è disastrosa – ci hanno detto – Abbiamo bisogno dell’aiuto dell’Europa, abbiamo bisogno della pace. Se non ci sarà la pace molti di questi bambini moriranno».

La pace però è una grande chimera. Che Putin possa fare dietrofront non lo crede nessuno. Si parla di corridoi umanitari, ma il timore è che si facciano sfollare gli ultimi civili per poter avere mano libera con i bombardamenti a tappeto.

* Co-autore – con Lorenzo Giroffi – di «Ucraina. La guerra che non c’era», Baldini Castoldi 2022