C’è un filmato che tutti gli appassionati di jazz e di note afroamericane in genere dovrebbero andare a vedere, se i casi della vita fino ad ora non li hanno condotti lì, a quei 5 minuti e 15 secondi di incanto. Basta cercare su YouTube The Train and the River, avendo cura di recuperare in particolare l’esibizione che è finita in uno dei filmati più riusciti di tutta la storia della documentaristica in jazz, The Sound of Jazz, appunto,1957. Si ascoltano e si vedono in azione tre giovanotti che intessono una trama fitta di note, rispondendo l’uno all’altro, ognuno cercando varchi e possibilità di intesa nel fraseggio dell’altro. Alla chitarra c’è Joe Pass, maestro di ricami e trine di note di inarrivabile eleganza, al basso Jim Atlas. E poi c’è lui, quel signore dall’aria raffinata e colta che imbraccia in successione baritono, clarinetto e sax tenore, Jimmy Giuffre. Uno di quei momenti speciali che restano a marcare un’epoca. Qui, in particolare, servono ancora una volta (e non sarà mai abbastanza) a rovesciare quel logoro, stantio luogo comune che continua ad affliggere la storia del jazz secondo cui nella California degli anni Cinquanta si suonava una sorta di disimpegnato e leggero «cool jazz» tutto levigato, trasognato disimpegno e leggerezza, mentre sulla East Coast sì, invece, che batteva un cuore nero e saldamente ancorato alle «radici blues e gospel». Ovviamente era tutto un malinteso, generato dal doppio (forse triplice fraintendimento) di un «hot jazz» delle origini inventato dai critici francesi e da contrapporre a un cool jazz, un inesistente «jazz freddo» – in pessima traduzione italiana – stavolta contrapposto, anche, a un jazz «nero e impegnato» come ci sarebbe stato nei medesimi anni nella dura e swingante New York.

IN CALIFORNIA
Cool jazz significa invece «jazz fico, jazz sopraffino». Lo era davvero, perché teso allo spasimo alla ricerca di inediti equilibri timbrici tra gli strumenti, anche poco usati nel jazz, di rincorse contrappuntistiche, di ritmiche che sembravano rincorrere la melodia, di melodie che si frastagliavano in aguzze impuntature ritmiche. In California c’erano approdati fior di compositori in fuga dall’Europa messa sotto scacco dai nazifascisti, e in California molti avevano trovato da lavorare nell’industria del cinema e come insegnanti. Formando quindi almeno una generazione di eccellenti compositori e musicisti jazz. Da qui (anche se non solo da qui) il jazz «cool» e «californiano». Jimmy Giuffre ne fu uno degli esponenti più brillanti e intelligenti, anche se non è certo il primo nome ad essere ricordato. Nacque cent’anni fa, a Dallas, Texas, il 26 aprile 1921, al secolo James Peter Giuffre: figlio di un immigrato siciliano da Termini Imerese. Cominciò a suonare il clarinetto all’età di nove anni, aggiungendo anche il sax tenore un lustro più tardi, a quattordici anni, e poi il baritono. Formazione musicale classica al North Texas State Teachers College, maestro Wesley La Violette. In Texas andavano forte gli shouter che dal sax anni cavavano suoni aggressivi e «dirty», molto rhythm and blues, e Giuffre imparò a suonare anche in quel modo, funzionalmente: gli tornò utile quando, nei primi anni Cinquanta, assieme a gente come Shelly Manne e Shorty Rogers, Bud Shank entrò nel giro dei Lighthouse All Stars, locale leggendario a Hermosa Beach, sud di Los Angeles. Le session le organizzava Howard Humsey, bassista cresciuto alla corte dello «sperimentale» Stan Kenton: era Jimmy Giuffre, con qualche bell’effettaccio virile e sfrontato sul sax, a «chiamare» la gente al primo set. Lui che, invece, quando riuscì a suonare solo come voleva aveva un timbro morbido, algido e pensoso, il contrario della aggressiva perentorietà acchiappa-pubblico, e sul clarinetto un fraseggio tutto stagliato sul registro più grave, il contrario della guizzante, argentina allegria del clarinettisti swing alla Benny Goodman.
Dal ’47 in avanti Giuffre è con Boyd Raeburn, Jimmy Dorsey, Buddy Rich, affina l’arte dell’arrangiamento, che gli tornerà assai utile nel ’49, quando diventò tenorista e arrangiatore per Woody Herman. Lì nascono i celeberrimi brani per i «Four Brothers»: tre tenoristi, incluso Stan Getz, che avrà gran influenza sul giovane John Coltrane, il fondale scuro di un sax baritono. Nel ’50 inizia l’avventura losangelina con il West Coast Jazz propriamente detto, mentre continua a studiare composizione e affinare il suo bagaglio teorico. E lì arrivano nuovi esiti: «Cominciai a sentirmi sempre più frustrato e limitato dall’assedio tonante della sezione ritmica, divenuta sempre più presente e competitiva nel jazz. L’ascoltatore così non riesce a seguire il suono dei fiati, il solista non sente sé stesso e non riesce a concentrarsi». Allora comincia a scrivere brani in cui il ruolo della ritmica è rigidamente definito in modo da non essere preponderanti, ma comunque presenti». È un nuovo assetto quasi «cameristico», che porta contemporaneamente Giuffre a una spietata lucidità di suono, a una chiarezza quasi lunare, e al contempo lo spinge ad essere sempre più libero nella concatenazione di improvvisazioni motiviche che sperimenta in piccoli gruppi, a volte senza piano, dunque senza il pressante ancoraggio armonico degli accordi, a volte senza batteria. Come scrisse Max Harrison nel 1968: «Dalla convenzionalità di Four Brothers sino alle soglie del free jazz. I tratti caratterizzanti nella sua evoluzione sono stati la sua fuga dalle «prigioni verticali» dell’armonia, e un serio interesse nel potenziale espressivo del puro suono, ambedue elementi che hanno anticipato di anni percorsi simili di molti musicisti cresciuti all’ombra di Ornette Coleman».

SET MEMORABILE
Nel suo secondo e splendido ellepì tutto da riscoprire, Tangents in Jazz, registrato a Hollywood nel giugno del ’55, Jimmy Giuffre è in piena ricerca, assieme al trombettista ventitreenne Jack Sheldon (che poi diventerà anche un attore e comico televisivo di gran successo!), il bassista Ralph Peña il batterista Artie Anton. Due anni più tardi la registrazione del memorabile set per The Sound of Jazz di cui si diceva: con Jim Hall alla chitarra, Jim Atlas al basso, e lui che alterna baritono, tenore e clarinetto in un iridescente gioco di specchi timbrici. L’aveva incisa l’anno prima, con Hall e Peña. La sua scrittura è apparentemente semplice, quasi sognante: impregnata di richiami ai profili melodici delle canzoni folk, spesso piegata verso morbide inflessioni blues, eppure aperta a momenti di pura atonalità. Un fluttuare libero mantenendo vaghi ancoraggi ai centri tonali. Con un’eleganza quasi inarrivabile. L’esito più corposo, di tutto questo, sarà la fondazione del memorabile trio del ’61 con il pianista canadese Paul Bley, e il bassista Steve Swallow, un «triangolo di libertà» dalla mobilità assoluta: avventura che Giuffre volle ripercorrere con un clamoroso ritorno discografico nel 1996 con il Trio – dove Giuffre imbraccia anche il sax soprano e Swallow ormai suona stabilmente il basso elettrico – documentato dallo splendido Conversation with a Goose, per l’italiana Soul Note.
Dopo tante avventure sonore, dolci e spericolate, in «free fall», caduta libera, come si intitola un suo gran disco, Giuffre ebbe ancora lunghi anni da dedicare all’insegnamento. Poi arrivò un quartetto con la nuova forza dell’elettricità, e l’esplorazione del flauto e del flauto basso. Fu il Parkinson a domarlo, lentamente e inesorabilmente: Jimmy Giuffre se ne andò per le complicazioni di una polmonite a Pittsfield, Massachusetts, il 24 aprile 2008. Due giorni dopo avrebbe compiuto 87 anni.