La bozza di risoluzione che andrà sul tavolo del Consiglio europeo di questo pomeriggio lo conferma: i confini sono un nodo strategico per questa Europa. Ancora una volta l’Europa politica riesce ad esprimersi solo sul terreno delle frontiere. Il testo licenziato nella sessione anticipatoria parla di libertà di circolazione interna solo in relazione alla necessità di rafforzare i confini esterni e con essi l’agenzia Frontex, mentre sullo specifico nodo del diritto d’asilo si prefigura un nuovo slancio per le politiche di esternalizzazione dei confini, con la costruzione di campi profughi nei paesi di partenza, per cercare di allontanare la questione.
Quanto queste proposte possano diventare concrete è difficile dirlo. Di certo sulle decisioni del Consiglio europeo pesano almeno due fattori: l’insuperabile scoglio degli egoismi degli stati membri e la pressione dei partiti che proprio sui temi dell’identità e della sovranità nazionale hanno ottenuto grandi risultati alle recenti elezioni europee. Ogni tentativo di «condivisione delle responsabilità» è stato insomma riassorbito in vecchie ricette di cui questa Europa sembra proprio non poter fare a meno.
Ma c’è un altra voce che fuori dai palazzi di Bruxelles tenterà di fare breccia. È quella dei migranti impegnati nella March for freedom. Chiedono libertà di movimento e diritti e guardano all’Europa come immediato terreno di rivendicazione. Non è poco. La tappa italiana di questa marcia è andata in scena proprio sabato scorso, quando centinaia di persone sono partite dalla Stazione Centrale di Milano per raggiungere la Svizzera e la sua frontiera, quel confine ibrido, insieme esterno ed interno, che in questi mesi è diventato il simbolo delle restrizioni alla libertà di circolazione.
«Sono scappato da una guerra, la conosco bene. E vi assicuro che al confine con la Svizzera c’è una guerra vera e propria» – diceva Hassan poco prima della partenza. E le sue parole bastano da sole a spiegare quanto la breccia aperta dal No Borders Train valga molto di più di tanti timori. Sui giornali del Canton Ticino, dopo sabato 21, non si parla d’altro. L’enorme dispositivo messo in campo dalle autorità elvetiche, che hanno dispiegato elicotteri e uomini lungo tutto il confine, si è dovuto piegare ai manifestanti. La «frontiera – come titola il più importante giornale locale – è stata forzata» aprendo un dibattito sulle responsabilità della Svizzera nei confronti di chi fugge dalla guerra. Un duro colpo per uno Stato che respinge illegittimamente almeno otto migranti su dieci alla frontiera di Chiasso, quello che nei racconti dei profughi incontrati tra via Aldini e i giardini di Porta Venezia a Milano sembra un luogo dalle mura invalicabili, un paese in procinto di applicare i risultati di un referendum che a breve introdurrà limitazioni anche per l’ingresso dei cittadini europei.
Eppure sabato scorso la macchina del confine si è inceppata e quella frontiera si è trasformata in poche ore in un dispositivo molle, compiacente, piegato alle rivendicazioni dei manifestanti.
Dalla Stazione Centrale sono partiti in più di trecento, almeno un terzo erano richiedenti asilo. Hanno superato i blocchi dei reparti anti-sommossa schierati al binario 5 e poi sono arrivati sulla banchina della stazione di Chiasso dove un comitato di accoglienza fatto di centinaia di agenti della polizia di Frontiera elvetica ha circondato il treno. Fuori dalla stazione decine di giornalisti e attivisti svizzeri tenuti lontano. Dentro una vera e propria acampada. Due ore di estenuanti trattative, di contatti con l’Ufficio Immigrazione, di pressione su un confine saltato sotto i colpi di un treno che viaggiava consapevole di stare dalla parte giusta.
A fine giornata la polizia svizzera ha dovuto cedere su tutto: ha raccolto le domande d’asilo presentate dai «profughi» e ha concesso ai manifestanti l’uscita dalla stazione. Così il No borders train si è trasformato in un corteo ed è uscito dallo scalo ferroviario senza il controllo dei documenti permettendo ad altri migranti di scomparire per le vie di Chiasso verso la Germania e la Svezia. In quegli attimi, di fronte a quella pratica collettiva e pubblica, il diritto d’asilo europeo e la libertà di movimento sono sembrati molto più concreti di quanto mai potranno essere sul tavolo di Bruxelless.

 
Quella protesta che sabato ha trasformato in polvere la granitica frontiera svizzera, insieme alla marcia che sfilerà per le vie della capitale belga, sono insomma un messaggio ai governi in procinto di riunirsi, ed insieme una speranza per i movimenti. Perché i confini uccidono, respingono, si possono subire pagando a caro prezzo ogni tappa del loro attraversamento, oppure, osando, possono diventare un eccezionale terreno politico di conquista, un nodo strategico su cui cercare di costruire le nuove geometrie di un’Europa che ormai sembra stare stretta a tutti, migranti e non. Ma per farlo c’è bisogno di tanti «no borders brains», capaci di pensare e muoversi oltre i confini, per raccogliere questa sfida del nostro presente.
* Melting Pot Europa