Revenant inizia con una scena travolgente: una spedizione di guerrieri Arikara attacca un accampamento di lavoro di cacciatori di pelli sul ciglio di un fiume. La battaglia è un lunghissimo piano sequenza che si intreccia alla razzia. Sfrecciano indiani a cavallo, sibilano pallottole e volano frecce poi l’arma bianca. Per girare la scena che ha impegnato 200 figuranti ci sono volute due settimane; il risultato è un memorabile «full immersion» guidata dalla cinepresa di Emmanuel «Chivo» Lubezki, già virtuoso collaboratore di Alejandro Gonzalez Iñárritu su Birdman. L’ultimo film del regista messicano è frutto di epiche riprese durate un anno in Canada e Argentina (già assurte a mitologia hollywoodiana dopo l’articolo del Hollywood Reporter che ne ha riportato drammi e passioni, compresa una mezza rivolta delle comparse) Lubezki ha usato solo luce naturale in location remote e in condizioni metereologiche estreme.

«Abbiamo usato molti piani sequenza» spiega Iñárritu, «perché in quelle condizioni è impossibile utilizzare un montaggio tradizionale con totali, primi piani e controcampi. La mutevolezza delle condizioni atmosferiche e della luce impediscono di accostare riprese fatte in momenti diversi. Tutto ciò comporta una attenta preparazione, e precise coreografie per ogni scena, e richiede che il cast e tutta la troupe siano del tutto concentrati nel momento. In questo senso è stato molto simile al lavoro in teatro: difficile ma anche straordinariamente appagante». L’effetto è quasi documentaristico, come uno speciale del National Geographic girato da Sam Peckimpah mentre l’immersione «lisergica» nella natura rimanda alla dimensione allucinatoria del New World-Il nuovo mondo di Terrence Malick. Quel film narrava il primo contatto dei conquistatori con il nuovo continente all’inizio del ‘600. Revenant-Redivivo (in uscita in Italia il 14 gennaio) è ambientato 200 anni dopo e racconta la «storia vera» di Hugh Glass, eroe minore del mitopoiesi di frontiera, un trapper, un cacciatore di pellicce sopravvissuto all’attacco di un orso grizzly (la scena da sola vale il biglietto) abbandonato per morto dai compagni, e della sua odissea di 200 km per emergere dalla foresta e vendicarsi.

 

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«Avevo in mente film che ho sempre ammirato», spiega Iñárritu, «uno dei film più poetici di Kurosawa, Dersu Uzala, e uno dei film che amo di più in assoluto,l’Andrei Rublev di Tarkovski. Ho cercato di riprodurre una dimensione epica e la sensazione della connessione fra la vita e la natura di cui siamo semplici organismi». Un esercizio di cinema estremo e «organico», insomma, ambientato nei luoghi di Jack London in cui Iñárritu alterna dosi di elegia e gore sullo sfondo di una natura mistica e ostile: Herzogiana. Una wilderness che il regista definisce una sorta di Amazzonia congelata, come quella di Aguirre e Fitzcarraldo dunque – o Kurtz: un cuore di tenebra da cui Glass/Di Caprio emerge trasfigurato. «Ho sempre amato London e Conrad», prosegue il regista. «Le loro storie di uomini contro uomini e uomini contro la natura in cui si mescolano epica e intimità. E il libro su Hugh Glass di Jon Coleman a cui ci siamo ispirati (Here Lies Hugh Glass) ha quelle stesse qualità e documenta quell’epoca nella storia d’America ». Perché sullo sfondo dell’epica avventura c’è un momento storico che è l’altra anima del film.

«La storia si svolge attorno al 1823, un periodo poco conosciuto che ricercando ho scoperto affascinante», spiega Iñárritu fra boccate di una sigaretta elettronica. «Napoleone aveva da poco ceduto a Jefferson, con il Louisiana purchase, l’immenso territorio che dal Mississippi giungeva fino al Pacifico. L’Oregon territory era ancora inesplorato da Lewis e Clark. Il Messico controllava ancora il sud ovest. Così la maggior parte del continente era un territorio senza leggi in cui convivevano Messicani, Francesi, avventurieri anglo e centinaia di tribù indigene non ancora soggiogate. Un luogo primordiale in cui i cacciatori di pelli gettavano le basi per il capitalismo di mercato. Un primo sfruttamento intensivo delle risorse, la commercializzazione delle pellicce per i mercati europei, preludeva all’estrazione su larga scala di legna, oro, minerali e tutto il resto». «La nostra esperienza è finita per assomigliare a quella dei personaggi. I trapper vivevano e lavoravano in condizioni di inaudita fatica e pericolo, squadre di lavoro in campi remoti in territorio ostile pagati pochissimo, contrattati dalle compagnie che poi trattenevano la paga per razioni di cibo e whisky; praticamente schiavi. Anche se il razzismo viscerale nei confronti dei ‘selvaggi’ era all’ordine del giorno, molti avevano mogli indiane».

In questa fase «meticcia» della conquista occidentale del continente «vergine» si gettavano le basi per le egemonie e le globalizzazioni del nostro presente. Spiega Di Caprio che considera il film anche una storia «fondativa» («Tarkovsky, sì, ma rifatto da John Ford»). «Parla di un momento storico americano quando ci fu un influsso massiccio di gente attratta dalle risorse naturali. Si può parlare della febbre dell’oro, dell’olio di balena, il boom del carbone e oggi di fracking. Ma questo fu il primo momento in cui l’occidente venne sfruttato pesantemente per le risorse naturali – ad ogni costo. Pensiamo di esserci evoluti da quel periodo in cui le popolazioni indigene vennero sterminate con le loro culture, il grande genocidio. La nostra è una vecchia storia ma continua oggi ovunque il capitalismo e le rivoluzioni industriali utilizzano ancora gli stessi sistemi».
La storia di Revenant quindi è anche quella del lato oscuro del «manifest destiny» in tutta la sua primordiale brutalità. In modo simile all’altro sanguinoso meta-western di questi giorni, l’Hateful Eight di Quentin Tarantino, che manomette le convenzioni di genere per infondere nella narrativa Americana l’odio razziale rimosso dalle versioni ufficiali, la violenza che pervade Revenant costituisce una «storia delle origini» pervasa di una brutalità premonitrice, che si alterna alla contemplazione dell’immenso continente che stava per essere sottomesso.

 

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«Non c’è dubbio, è stata una dura prova delle nostre forze», continua Di Caprio. «Ma tutti eravamo coscienti sin dall’inizio che stavamo per imbarcarci in un’avventura che ci avrebbe messo a dura prova. Facevamo prove meticolose di ogni scena per poter dar vita alla visione di Alejandro e poi avevamo una finestra molto limitata di luce per poter effettuare le riprese – a volte solo un paio, e se non riuscivamo a completare la scena dovevamo tornare il giorno dopo e ricominciare da capo. La natura è stata una coautrice di questo film».
E non sempre ha collaborato. La produzione è stata costretta a traslocare nell’emisfero meridionale per finire le riprese quando un inverno insolitamente caldo ha provocato in Canada un disgelo anticipato. «E parlando di meteorologia, voglio aggiungere solo una cosa» dice Di Caprio di un tema che da sempre gli sta a cuore «Lo scorso luglio è stato il mese più caldo di sempre. Il mutamento climatico sta ora avvenendo a velocità tre volte superiore alle previsioni anche di solo pochi anni fa. Il caldo ha fatto sciogliere imprevedibilmente la neve, come credo sia accaduto anche sul set di Tarantino. Si tratta di un mutamento climatico ormai a velocità tripla rispetto alle previsioni originali. Nelle nostre riprese lo abbiamo potuto toccare con mano. Non a caso il 2015 è stato l’anno in cui sono diventati evidenti gli effetti catastrofici di uno squilibrio ormai ineluttabile».

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