Instancabile Sisifo, Theresa May spinge il masso dell’accordo con l’Ue, capace di unire tutti nello scontento più totale, in cima all’impervia salita, solo per vederlo beffardamente rotolare a valle. Per poi spingere di nuovo, con una determinazione che sfida la capricciosa crudeltà dell’Olimpo.

Non ultima tra le sue prove di resilienza, l’essere finora sopravvissuta alla fronda interna mossale dai neovittoriani dell’Europe Research Group, capitanati da Jacob Rees-Mogg, che la scorsa settimana innescavano il procedimento di sfiducia della leader secondo una modalità che richiede la spedizione di 48 lettere da altrettanti deputati che manifestino il proprio scontento con la leadership.

Per ora questo quorum non è stato raggiunto; ma, se lo fosse – e la premier sopravvivesse all’elezione interna successiva -, nessuno potrebbe tentare di rimuoverla nuovamente per un lunghissimo anno. Per ora Rees-Mogg e i suoi paiono scornati. Non che May possa mai sentirsi al sicuro: gli scherani del Dup minacciano di far saltare il patto scellerato con cui la premier si era assicurata il loro appoggio (una maxi-tangente di un miliardo di sterline che passa con il nome di confidence and supply arrangement).

May ha sostituito il Brexit Secretary Dominic Raab, dimissionario la scorsa settimana assieme a un drappello di ministri e sottosegretari per via del loro assoluto disaccordo con l’accordo, con un nessuno de-potenziario (il neoministro, Steve Barclay, si occupa solo di questioni Brexit «interne», nazionali), il che le permette di colmare le sue interminabili giornate di ozio contemplativo con un ennesimo incarico. Ora è lei che si reca personalmente a Bruxelles per cercare di soffiare vita nello sciagurato accordo con l’Ue. Ha poi ripescato la fedelissima Amber Rudd, piazzandola al Lavoro.

Ieri era dunque a Bruxelles, dove tornerà nuovamente nel fine settimana, per essere accolta da Juncker & Co. con un’affabilità mesi addietro semplicemente impensabile. Bruxelles di certo ne ammira il fare da scudo umano alle 585 pagine dell’accordo, che hanno richiesto due anni e sono considerate non rinegoziabili. Nel frattempo, la premier ha ieri presentato un documento di ventisei pagine più essenzialmente politico. Punta a fissare («a matita»: non è legalmente vincolante) «la cornice del rapporto futuro tra l’Unione Europea e il Regno Unito».

Jeremy Corbyn l’ha puntualmente liquidato, definendolo «ventisei pagine d’insulsaggini» che non soddisfano le «sei prove» enunciate dal Labour come condizione per il proprio sostegno parlamentare all’accordo di uscita. Corbyn sta tralignando sulla linea di «elezioni subito» per contenere la spinta dei moderati nel partito verso il cosiddetto «voto del popolo», in buona sostanza un secondo referendum travestito. Per questo sta ponderando la fattibilità politico-costituzionale di un governo Corbyn capace di rinegoziare tutto con l’Ue senza elezioni. Intanto,

Theresa-Sisyphus continua a spingere il masso su per la salita. Fino all’incombente voto «significativo» (meaningful vote, il 10 dicembre) in parlamento, dove continua a non avere i numeri.