Dinanzi alla singolare vicenda artistica di Roger de la Fresnaye, troncata da morte prematura nel novembre 1925 a quarant’anni, bisogna resistere alla tentazione di farsi ipnotizzare dalla maniera ultima, morbosamente mischiata all’angoscia di una malattia esiziale, che sprigiona fantasmi e li volge in uno stregato neoclassicismo (e neomanierismo) caricaturale, e tenere la barra del giudizio sul momento di più alta qualificazione, quello cubista.
Ma, veniamo subito al punto, in che modo fu cubista La Fresnaye? Storicamente rientra nella categoria dei «cubisti da Salon», coloro che, in schiera militante, si rivelarono al pubblico nel Salon des indépendants della primavera 1911, autonomi dall’ortodossia di riferimento dei fondatori Braque e Picasso, la cui opera, del resto, a Parigi restava nascosta, salvo qualche occasione al n. 28 di rue Vignon, Galerie Kahnweiler. Particolare non secondario, agli Indépendant La Fresnaye non figura nella sala 41 – la più esplosiva – accanto (fra gli altri) a Delaunay, Léger, Gleizes, Metzinger, ma nella sala 43, insieme ad artisti «di compromesso», che hanno inteso il cubismo non come analisi strutturale della forma ma quale decisivo mezzo di semplificazione: Segonzac, Moreau, Lotiron, Mare, Paul Vera, artisti che del resto egli terrà per amici lungo tutta la vita e che, nel dopoguerra, offriranno una sponda al suo bizzarro «ritorno all’ordine». I cubisti «del 1911» confluiscono, l’anno successivo, nel movimento della Section d’Or, con la fatidica mostra, ottobre, della Galerie La Boétie, dove il fronte più avanzato è rappresentato dai fratelli Duchamp, la retroguardia da, di nuovo, tra gli altri, La Fresnaye.
Classe 1885, La Fresnaye è un ragazzo racé, nato (a Le Mans) da una famiglia aristocratica normanna (ramo paterno), cresciuto in un ambiente religioso e coltivato, dolce e austero, facente perno sull’antico Manoir di Beauvernay, Loira, che apparteneva alla ricca discendenza materna e che resterà sempre per lui, dandy melanconico, soggetto ad accessi di vera disperazione, rifugio e conforto, deposito proustiano di memorie infantili e di vite ulteriori. Si trasferisce a Parigi con i suoi nel 1897, 31, rue Boissière, nel Sedicesimo, quartiere benestante e intellettuale: ha per vicini di casa Valéry e Proust.
Rivelazione all’Académie Ranson
Apprendistato all’insegna del beau métier all’Académie Julian e all’École des beaux-arts, come formazione culturale Roger si mette più avanti in letteratura (Gide, Jammes) e musica (Debussy, Saint-Saëns) che in pittura. I primi assaggi di arte moderna li fa in rue Laffitte, nelle piccole gallerie di Clovis Sagot e di Ambroise Vollard, ma la rivelazione giunge nel 1909, quando prende a frequentare l’Académie Ranson, dove insegnano, in un clima di grande libertà, Paul Sérusier e Maurice Denis, secondo gli «antichi» dettami del sintetismo gauguiniano. Il libro che qui viene recensito – Michel Charzat, Roger de La Fresnaye Une peinture libre comme l’air (Hazan, pp. 256, euro 45,00) – ricorda, secondo la testimonianza di Yves Alix, uno degli allievi, come durante le sedute di lavoro circolasse fra le mani, «facendo vibrare l’atmosfera dell’atelier», il minuscolo, già mitico Talismano di Sérusier, con cui questi, nel 1888, aveva comunicato ai futuri Nabis (tra cui Denis) il verbo nuovo di Pont-Aven.
L’«inquadratura japonisant», la «giustapposizione dei colori caldi e freddi», i «contorni accusati» (come Charzat riassume la poetica di Sérusier) spingono La Fresnaye a concepire il quadro nella sua autonomia formale, libero da riserve mimetiche, esclusivo campo d’azione di rapporti, cromatici e lineari. Charzat non riferisce di un passo illuminante di Raymond Escholier, citato nella biografia di Sérusier scritta da Denis nel 1942, in cui si ricorda che «Sérusier sosteneva di essere “il padre del cubismo”» e che «parlò di angoli e rapporti numerici a uno dei suoi allievi, e questi subito traspose le forme naturali in geometria e armonia, diventando uno dei campioni del Cubismo francese più raffinato, Roger de la Fresnaye». I quadri di La Fresnaye nei giorni dell’Académie Ranson sono ancora, però, poetiche illustrazioni del sintetismo, con un’affezione particolare – vedere il piccolo cartone Le Canal, paysage de Bretagne, realizzato durante il pellegrinaggio nei luoghi di Gauguin – per la formula ‘certosina’, riposata, candida, di Denis.
Raynal cita Keyserling
Un vero battesimo, che giustifica il carattere «classicista» della successiva adesione di La Fresnaye al cubismo: un critico cubista della prima ora, Maurice Raynal, ha citato, a proposito di questa adesione, la frase di Keyserling «le rivoluzioni sono fatte per salvaguardare le tradizioni». Che sembra il motivo principale dell’interesse di Charzat, uomo politico già socialista consacratosi alla critica d’arte, il quale, a partire dal volume La Jeune Peinture française 1910-1940 (Hazan, 2010), si è dato l’obiettivo di riqualificare figure e momenti della modernità francese più nutrita di passato, tenuti in ombra dal persistere dell’ideologia dell’avanguardia.
Più che Derain, cui ha dedicato nel 2015 una vasta biografia (sempre Hazan), La Fresnaye dà a Charzat la possibilità di saggiare i punti di resistenza del classicismo francese all’interno del fronte di ricerca più avanzato. Perché, al contrario di Derain, La Fresnaye cubista lo fu davvero. Se l’opera presentata agli Indépendant del 1911, che riscrive il celebre Cuirassier blessé di Gericault, indica semplicemente un’esigenza epica di ordine e stilizzazione, con i Baigneurs del 1912 il salto cubista è già compiuto, nella forma particolare propria a La Fresnaye, aerea, fresca, colorata, charmante, fondata su un utilizzo finemente scolastico dei passaggi cézanniani (ai quali lo aveva introdotto Denis), e, sopra questa base, su un evidente aggancio alle ricerche poco precedenti di Léger.
Questi, prendendo le distanze dalla staticità plastica di Braque e Picasso, aveva introdotto movimento e varietà formale attraverso una contrapposizione, severamente bilanciata, di zone piatte e zone volumetriche. Idem La Fresnaye, dove il dato figurale resta però più integro, e, al contrario che in Léger, lavorato, seppure parzialmente e discretamente, secondo la simultaneità di visione del cubismo analitico. Il motivo delle nuvole solide semicircolari bianche, ‘appese’ al cielo, ricorda da vicino gli sbuffi di fumo di Léger, ma rimonta, per entrambi i casi, a Robert Delaunay, che lo aveva utilizzato per primo nelle sue Torri Eiffel.
Diventerà una specie di sigla, appaiato al tricolore francese sull’azzurro smagliante, nell’opera più celebre di La Fresnaye, La Conquête de l’air del MoMA, riapparsa a Parigi nella primavera 2016 in occasione della mostra dedicata ad Apollinaire, il quale a caldo, nella cronaca del Salon d’Automne del 1913 (dov’era stata presentata), aveva parlato di «un grande sforzo verso il colore puro» e di un’influenza di Delaunay. Con qualche ragione: in questo momento La Fresnaye mette la sordina sulle ricerche plastico-volumetriche a favore di una compenetrazione musicale di piatte superfici cromatiche, secondo l’indicazione, proprio, del cubismo «orfico» formulato dallo stesso Apollinaire in relazione a Delaunay. Ma non si lascerà tentare, come questi, dall’astrazione: nell’Architecte, 1913, una delle vette dell’opera di La Fresnaye, si misura al massimo grado il nobile ed elegante controllo, profondamente francese, che il pittore esercita su questa tentazione.
Rosenblum, grande ammiratore
Colui che meglio ha definito, in poche parole, le specifiche qualità formali di La Fresnaye è Robert Rosenblum, suo grande ammiratore. Nella Storia del cubismo, 1960, è colpito dal fatto che «le sue stilizzazioni geometriche sono sempre incomplete»: qualcosa di più del passaggio cézanniano, dove la forma si apre e confluisce nello spazio circostante; le forme, in questo caso, sono deliberatamente troncate, il che produce una «fragilità», una «mancanza di organicità», che «ironicamente smentiscono» la loro «ostentata solidità»: «Un conturbante contrasto tra l’evidenza architettonica delle masse grevi (…) e l’aerea incompiutezza della composizione d’insieme». Rosenblum si riferisce qui al momento precedente la fase «orfica» – L’artiglieria, 1911-’12, Paesaggio (Meulan), 1912 –, quando il peso della massa non è ancora dissolto nel puro gioco dei rapporti armonici di forme quadrate e sferiche (il caso della Conquête de l’air). Si capisce bene, da questa analisi, l’impegno di ricerca in un’opera che al contrario John Golding, nel 1959, appena un anno prima di Rosemblum, in quella Storia del cubismo presto divenuta la bibbia dell’ortodossia di scuola, aveva derubricato come «formale» e «decorativa».
L’ormai remoto precedente del libro di Charzat è la notevole monografia del 1945 (poi ’69, con tentativo di catalogo ragionato), stesa dal mercante d’arte moderna a New York Germain Seligman, colui che, insieme all’industriale della maglieria Pierre Lévy, grande collezionista (con la moglie Denise) di pittori francesi entre-deux-guerres (la sua magnifica raccolta costituisce oggi il Musée d’Art Moderne di Troyes), ha tenuto acceso il faro su La Fresnaye nei momenti di bassa fortuna, quando l’ideologia modernista non faceva sconti agli spiriti indipendenti. Ma per La Fresnaye, artista inclassificabile, vale pure l’inverso, che un modernista radicale come Alfred Barr, primo direttore del MoMA, abbia fatto carte false per acquistare ed esporre con rilievo, nel 1947, La Conquête de l’air, «uno dei monumenti dell’arte francese del ventesimo secolo», e che la recente stagione del «disincanto» abbia poi decretato, dal 1997, di spedire la tela fra le riserve. Splendeurs e misères de La Fresnaye, come titola il saggio iniziale di una recente raccolta di studi sull’artista (Par-delà le cubisme, Presses Universitaires de Rennes, pp. 408, euro 27,00): lo firma Françoise Lucbert, curatrice insieme a Yves Chevrefils Desbiolles del volume, che accanto alla biografia di Charzat indica, per La Fresnaye, una discreta ripresa di splendore.
In visita nel giardino di Villon
Come nel ‘ritratto’ di Derain, Charzat è abilissimo, in questo di La Fresnaye, a descrivere, con un uso dosato e bene incrociato delle fonti, il milieu umano e culturale di riferimento. Se a proposito dei Baigneurs ci aveva sorpresi con l’immagine – un po’ à la Jarry – di La Fresnaye che, il 14 luglio 1912, si presenta a Puteaux, nel giardino (poi divenuto mitico) di Jacques Villon, con la grande tela sopra il tetto della carrozza e delle piccole bandiere tricolore piantate nella paglietta, intorno a La Conquête de l’air Charzat ricostruisce la scena dei progressi aeronautici dell’epoca, di cui La Fresnaye, insieme al Delaunay dell’Hommage à Bleriot, è stato il massimo cantore in pittura. La Fresnaye ricorre, per figurare il sogno di Icaro, non, come i tempi avrebbero voluto, a un velivolo a motore, ma a una mongolfiera: sì, le rivoluzioni sono fatte per salvaguardare le tradizioni, in questo caso il mito, francesissimo, dei fratelli Montgolfier. Nella Conquête de l’air, scrive Charzat, i due personaggi «dall’apparenza cristallina» che «campeggiano sul tetto del mondo» (il fratello dell’artista, Henri, e Henri Kapferer, entrambi impegnati nell’industria aeronautica), non celebrano tanto gli sviluppi meccanici della modernità quanto «l’odissea dello spirito», «la sua quête». Possono farlo perché tutti i piani del quadro, come ha scritto Rosemblum, «sembrano scattare e librarsi con la libertà gioiosa di un salto in alto».
«Ah Dieu que la guerre è jolie!»: la baldanza estetistica di Apollinaire nelle trincee non è condivisa da La Fresnaye, che, con un senso del dovere dalle ataviche risonanze familiari, chiede di essere reintegrato nel servizio attivo, e, sergente mulattiere, vive l’esperienza, spesso in prima linea, dal settembre 1914 al settembre 1917, con la nobile normalità di chi non riesce a guardare la morte in faccia, di chi comprende che «il freddo, il buio, le tempeste d’acciaio, il sangue (…) saranno inesprimibili» (Charzat), di chi condivide solidalmente, da posizione aristocratica, il brusco appiattirsi delle differenze di classe. Gasato in un’azione militare del 22 settembre 1915, inizia il calvario che, con il sopravvenire della tbc, lo porterà a morte giusto dieci anni dopo, il 27 novembre 1925, nella villa Cresp, sulle alture di Grasse, Alpi Marittime. «Pleurez vos cathédrales. La Fresnaye est un crime de guerre», scriveva nel ’20 Cocteau, che gli fu amico (alcune lettere inedite di La Fresnaye a lui sono in appendice alla monografia di Charzat).
Dopo la guerra l’artista, pur non rinunciando al cubismo in una serie di metafisiche nature morte, si fa interprete del ritorno al figurativo prima in chiave neoclassica, con una purezza di segno non ignara del precedente di Picasso, il quale, come si sa, aveva innestato la sua vena ingresque già dal 1915 con i ritratti a matita di Jacob e Vollard. Rimarchevole, in questo genere, la gouache con l’effigie di Jean-Louis Gampert, incisore e pittore, al quale La Fresnaye era legato da un rapporto di intimità fin dai giorni dell’Académie Ranson, frequentata da entrambi.
Negli anni della lenta agonia di La Fresnaye a Grasse questa intimità si trasformò, secondo le parole di André Mare, in una «passione domestica», che rivela la componente omosessuale dell’artista, lettore immediato di Proust. Omosessualità da lui stesso depistata e quasi del tutto assente in sede critica: Charzat ne evidenzia invece l’importanza sul piano fantastico nella produzione finale di La Fresnaye, dove il realismo ritrovato subisce una bislacca ed estrosa torsione manieristica popolandosi di nudi maschili: scattanti palafrenieri memori di Pontormo e di Rosso («Mi ossessionano i miei palafrenieri»), dolenti fantocci dalle membra ciclopiche, larve allungate come nell’Hommage au Greco. Tutte opere di piccolo taglio, mai o quasi – per il danno ai polmoni – condotte a olio.
Autoritratti dell’oltretomba
D’altra parte La Fresnaye si distanzia meditativamente, recuperando la lezione di Poussin, nel Paysage de Hauteville, 1922, o, anno di morte 1925, in una minuscola pietra calcarea che dipinge con rovine antiche sul cielo rosato. Un soggetto ricorrente è il giovane allettato senza speranza: se stesso. Gli ultimi mesi di vita vedono una serie di autoritratti «dell’oltretomba» registrare «l’inesorabile progressione della malattia»: in quello estremo, un carboncino su carta blu, la figura a lievi colpi di luce viene risucchiata dal nero delle orbite vuote.
Complessivamente, è un insieme perturbante di recriminazione dell’eros, che trova assestamento in strane visioni anacreontiche, e di una concentrazione interiore che suggerisce: «Certo, io dovrei considerare con calma la liberazione». Legge Sant’Agostino. Alcuni brani delle Confessioni, riferisce Charzat, «continuano a commuoverlo fino alle lacrime»: «Ed eccomi giungere alle distese e ai vasti palazzi della memoria, dove stanno i tesori delle innumerevoli immagini…».