Con la revisione della Costituzione, se superasse il vaglio del referendum, «l’economia andrà meglio, si crescerà di più, ci sarà più occupazione, aboliremo una quantità enorme di contenziosi tra Regioni e Stato». Sembra la parodia di una celebre canzone di Lucio Dalla e invece sono le avventate parole del ministro Padoan.

Il ministro dell’economia le ha pronunciate ieri sera nel più accomodante dei talk show televisivi. Eppure solo pochi giorni fa Standard & Poor’s, di solito considerata un oracolo, aveva fatto sapere che in ogni caso non ci saranno cambiamenti rilevanti per l’andamento dell’economia italiana, sia che vinca il Sì, sia che vinca il No. Spegnendo quindi in anticipo ogni ottimismo gonfiato come ogni pessimismo ricattatorio. A meno che, aggiunge la quotata agenzia di rating, – in cauda venenum – non si invertano le «riforme» avviate. È come se i poteri finanziari dicessero al governo italiano: ti abbiamo detto di cambiare la Costituzione e come farlo. Ma se il popolo italiano dovesse dire No, perché tu non sei stato in grado di convincerlo, almeno salviamo la sostanza della politica economica di questi anni che ha spalancato le porte alla finanza in ogni settore. Anche le agenzie di rating percepiscono che il No può vincere. E si preparano a un piano B. D’altro canto i traders sono gli ultimi a potersi bere le minacce di Renzi sul rimbalzo degli spread in caso di vittoria del No. Sanno bene che simili sommovimenti, come l’innalzamento del rendimento dei titoli di stato, derivano da tutt’altri fattori, come la Brexit o le promesse di Trump di aumentare i tassi di interesse e rilanciare l’inflazione (la Trumpflation) richiamando capitali negli Usa, con tutte le conseguenze del caso anche sulle economie europee, a partire da quelle con più alto debito pubblico, come il nostro paese che lo ha aumentato al 132,5% malgrado l’assenza di qualunque politica di spesa pubblica produttiva.

È su questo sfondo che assistiamo ad uno sfoggio di frenetico attivismo del presidente del consiglio. L’autocritica sulla personalizzazione della contesa referendaria è morta e sepolta. Non ha dato frutti. Quindi Renzi chiama tutta la luce su di sé. Sia a livello interno che internazionale. Coerente con lo schema del segretario di un partito pigliatutto, vuole rappresentare contemporaneamente l’establishment e l’innovazione, essere il Trump e l’antiTrump, per dirla più semplicemente.

Ciò che conta è che ogni cosa torni a suo vantaggio. Ma naturalmente non è l’unico attore sulla scena e gli altri non stanno a guardare. Non è, quello italiano, l’unico governo europeo su cui pende un voto popolare. Anzi ce ne è una sfilza. La Commissione europea, come previsto, rinvia il giudizio definitivo sulla legge di bilancio, così questo non impatterà sul referendum del 4 dicembre. Ma prima o poi questa sentenza ci sarà e rappresenta un monito sia per il governo Renzi, se sopravviverà al 4 di dicembre, sia, in caso contrario, a chi ne raccoglierà le spoglie.

Assai spuntata è la mossa, anch’essa prevista, di una riserva italiana su un bilancio pluriennale della Ue, la cui incidenza quantitativa e qualitativa resta comunque minima. Serve per fare scena, come la bandiera europea sparita dalle riprese televisive dello studio del capo del governo, ma poi richiamata nel suo discorso in Sicilia. Dove Renzi si è recato promettendo «mari e ponti», è il caso qui di dire, visto che il Sud è il punto più dolente per la causa del Sì. Incassato con il solito voto di fiducia il decreto fiscale che accompagna la manovra di bilancio, e che assicura la liquidazione di Equitalia, tanto invisa alle destre, la rottamazione delle cartelle e il rientro a condizioni di favore per i capitali fuggiti all’estero (la voluntary disclosure), Renzi dichiara che al Sud nel 2017 vi sarà la decontribuzione totale per gli imprenditori che assumono, asserendo che al Nord non ve ne è più di bisogno. Ma i numeri sono capricciosi, anzi «lacrime congelate».

Se l’Istat, nell’ultima rilevazione trimestrale, solo l’altro giorno aveva gratificato il governo di un decimale in più nelle previsioni di crescita – ma nel terzo trimestre si è lavorato due giorni in più che nel precedente -, ora l’Inps conferma i recenti trend di rallentamento delle assunzioni derivanti proprio dal venire meno degli sgravi contributivi. A ennesima conferma che insistere solo sui vantaggi fiscali per le imprese, senza una politica di rilancio dell’occupazione basata su un intervento pubblico in settori innovativi, non ha né futuro né presente. I licenziamenti risultano ancora una volta in netta crescita nel 2016 rispetto a entrambi i precedenti anni. Il Jobs Act resta un Flop Act a tutte le latitudini. E non sforna Sì.