La notizia più rilevante che la moda ha prodotto in questi giorni è la nomina di Maria Grazia Chiuri alla direzione creativa di Christian Dior. L’arrivo a Parigi, nella posizione più alta del marchio storico francese fondato nel 1946, della designer che dal 2008 è stata co-direttrice creativa di Valentino insieme a Pier Paolo Piccioli, è l’ennesimo arruolamento di un italiano nella moda francese. Dove c’è già Riccardo Tisci alla testa di Givenchy, Alessandro Dell’Acqua da Rochas, Fausto Puglisi da Emanuel Ungaro. Ma ci sono anche l’inglese Phoebe Philo da Céline, gli americani Umberto Leon e Carol Lim da Kenzo, il georgiano Demna Gvasalia da Balenciaga.

Questo potrebbe essere un fenomeno legato a una giusta globalizzazione dell’uso dei talenti e alla non chiusura della cultura della moda a una vecchia idea protezionistica, in cui la Francia appare all’avanguardia, se non fosse che la tre giorni appena terminata delle sfilate dedicate alla haute couture a Parigi non avesse riflesso come in uno specchio la criticità della situazione. In cui il dato più evidente è che, separata dal suo sistema industriale già a partire dalla fine degli Anni 80, la moda francese si trova ora in un’affannosa ricerca di identità e la sua Chambre Syndicale, l’ente associativo che organizza le manifestazioni di Parigi, si trova in una crisi di autorevolezza che la spinge ad arruolare espressioni creative insignificanti pur di costruire un calendario di sfilate che possa avere il significato della parola.

Il primo dato rilevantissimo è che, dopo la dismissione del comparto industriale dell’abbigliamento, la moda francese è quasi interamente prodotta dall’industria italiana. I grandi gruppi finanziari, Lvmh e Kering, che hanno incluso i marchi storici hanno preferito spogliarsi dell’onere della industrializzazione demandando al sistema industriale italiano, rimasto unico in Europa, tutta la produzione di un prệt-à-porter che negli anni ha elevato in modo esponenziale la qualità e che, quindi, non può essere delocalizzato in Paesi a basso costo del lavoro. È vero che Parigi ha saputo proteggere i laboratori artigianali iper specializzati, ma è anche vero che alla sopravvivenza della maggioranza dei Lesage di Francia ha provveduto un’azienda privata e familiare come Chanel.

Ma questo non è bastato a nascondere, proprio in queste ultime sfilate di haute couture, una mancanza di prospettiva che è per lo meno allarmante. Di fatto, l’estrema prevalenza della finanza nel sistema francese evidenzia che, nonostante la presenza di marchi storici e di nuovi arrivati sulla scena della couture, la collezione più riuscita, e oltretutto la più rispondente ai criteri fissati della stessa organizzazione sindacale dei couturier parigini (le regole del fatto a mano, l’esclusività, l’innovazione e via dicendo), sia stata la collezione di Valentino, interamente lavorata a Roma negli atelier di piazza Mignanelli e progettata da Chiuri e Piccioli. E, proprio scegliendo la prima del duo, Dior dimostra quanto la strategia francese degli ultimi trent’anni sia stata sbagliata.

Il che non serve a far vantare una vittoria all’Italia sulla Francia o a costruire inutili revanchismi, come stupidamente qualcuno tenta di fare, ma solo a sottolineare come il sistema della moda oggi non può sopravvivere se continua a separare ideazione e produzione, design e industria. Che, alla fine, è stata la fortuna della moda italiana agli inizi degli Anni 80, quando imprenditori illuminati hanno finanziato quelli che poi sono diventati i mondialmente acclamati Stilisti Italiani.

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