«L’area era già classificata a rischio molto elevato in un contesto geologico vulnerabile, non si dovrebbe abitare in una zona così, dove è pure scarsissima la manutenzione del territorio – il commento di Gaetano Sammartino, presidente della Società italiana di Geologia ambientale Campania -. Sull’isola ci sono canali di scolo che sono stati tombati, cancellati. I contadini una volta terrazzavano le pendici, convogliavano le acque che si infiltravano invece di scorrere a velocità pazzesca verso il mare. E poi ci sono gli abusi senza collegamento ai collettori fognari. Serve maggiore consapevolezza da parte della popolazione». Un territorio fragile, quindi, su cui si innesta il cambiamento climatico. Come spiega Massimiliano Fazzini, docente di Geologia, climatologo e referente team Rischio climatico della Società italiana di Geologia ambientale.

Fazzini, cos’è successo a Ischia?
Da un punto di vista meteoclimatico, si è trattato dell’ennesimo ciclone mediterraneo che si è formato negli ultimi 15 giorni sul Mare nostrum. Il ciclone, con la sua parte occlusa, ha interessato l’isola: in 6 ore sono caduti tra i 120 e i 155 millimetri di pioggia, con un valore orario di oltre 50 millimetri tra le 4 e le 5 di mattina, questo è lo scroscio che ha innescato una colata detritica molto eterogenea che ha interessato Casamicciola. Si tratta di un fenomeno, dai primi calcoli che ho fatto, che ha tempi di ritorno per la precipitazione oraria di circa 100 anni: non assolutamente eccezionale, quindi, un evento che si era già verificato anche con maggiore magnitudo sull’isola e che si potrebbe ripetere anche con maggiore frequenza vista la crisi climatica.

Perché è importante calcolare i tempi di ritorno?
Si tratta del periodo in cui è lecito, da un punto di vista statistico, che si possa verificare lo stesso evento con la stessa intensità. Sono importanti perché vengono utilizzati per le infrastrutture: ponti, dighe e argini sono progettati sui tempi di ritorno per essere sicuri che l’opera possa reggere anche in condizioni meteorologiche o idrologiche eccezionali. Ma, con la crisi climatica in atto, il tempo di ritorno non è più il caso di prenderlo in considerazione: l’aumentata frequenza dei fenomeni importanti fa sì che piogge che avevano fino a 20 anni fa tempi di ritorno di 100 anni adesso hanno tempi di 15, 10 anni e non è detto che non si possano ripresentare due volte in una stessa stagione.

Come affrontare questa ennesima conseguenza della crisi climatica?
Gli anglosassoni, ad esempio, non progettano più sui tempi di ritorno ma sulla massima magnitudo cioè prendono in considerazione i due o tre fenomeni più intensi occorsi negli ultimi 20 anni e fanno una progettazione su quello.

Tornando a Ischia, nel 2009 c’era già stata una frana simile.
Allora l’evento fu più lungo però meno intenso, la magnitudo complessiva fu leggermente inferiore ma ci fu una vittima. A seguito di questo, vennero iniziati e in parte completati lavori di bonifica e sistemazione del versante. La frana questa volta è stata talmente ampia che ha in parte aggirato le sistemazioni idrauliche e la bonifica. Qualcosa era stato fatto ma non è stato sufficiente.

Se la crisi climatica è così grave perché non si interviene?
La Cop27 ha avuto risultati raccapriccianti, gli interessi economici su scala globale sono più forti dell’interesse per la vita umana. All’Europa basterebbe incrementare un po’ il processo verso la neutralità carbonica per riuscire entro il 2040 a raggiungere il 50% di abbattimento dei gas serra. Ma l’Ue è stata la grande sconfitta.

Come mai a Ischia il suolo è così instabile?
Si tratta di un vulcano spento molto recente. Geologicamente è un’isola giovane quindi anche i versanti che caratterizzano i rilievi vulcanici sono morfodinamicamente molto attivi, sono cioè in continua evoluzione e in evoluzione rapida. Il problema è la litologia, il tipo di roccia piuttosto che di sedimento o detrito che caratterizza i pendii: sopra una parte molto rigida, cioè la parte depositata che risale alle eruzioni più antiche, si sono stratificate nelle fasi successive delle rocce più incoerenti, più volatili e più leggere come le ceneriti vulcaniche, paragonabili da un punto di vista dinamico alle argille: quando arriva uno scroscio di pioggia si gonfiano, si imbibiscono, perdono coesione e scivolano verso il basso sotto forma di colate di fango o di colate di detriti, inglobando anche massi. Da questo punto di vista non c’è grande differenza con quello che avvenne a Sarno e Quindici nel 1998.

Non è colpa anche dell’intervento dell’uomo?
Sì, lì c’erano dei limoneti, essenze arboree frutticole come aranci e mandarini. Anche perché le terre vulcaniche sono in assoluto le più fertili. Purtroppo c’è stato un abbandono di queste coltivazioni, una cattiva gestione e una sciagurata urbanizzazione dei pendii. Questo è il punto focale di tutto: se storicamente un pendio è interessato da una frana, una colata detritica o un’esondazione di torrenti, la zona è definibile pericolosa. Se ci andiamo a costruire sopra, da pericolosità si passa a vulnerabilità perché c’è qualcosa di umano che è vulnerabile all’evoluzione dell’ambiente fisico. Se poi facciamo del pendio una zona fortemente urbanizzata (non si sa secondo quale piano regolatore o legge locale) è chiaro che la vulnerabilità diventa rischio cioè ne va di mezzo la vita della gente. Quest’ultimo è uno di quei tanti eventi che dimostrano come una sciagurata antropizzazione sta determinando un aumento esponenziale del rischio per la popolazione.

Cosa si può fare?
Bisogna cercare di adattarci a questo nuovo clima e alle conseguenze che ha sul territorio antropizzato per cercare di salvare la pelle. Le istituzioni dovrebbero fare di più ma è una battaglia persa. La comunità scientifica sottolinea da sempre il grave problema di non aver fatto prevenzione, sono vent’anni che ripetiamo che il clima sta cambiando, bisogna diminuire il rischio con studi specifici e con il recupero degli ecosistemi.