Sette anni fa la sua ultima apparizione sui palchi italiani. Per Björk – l’artista islandese ex vocalist degli Sugarcubes, il gruppo che in qualche modo ha aperto le porte a una scena che oggi vanta alcuni dei nomi più in voga in ambito «alternative», come, ad esempio, i Sigur Rós – sono stati anni di cambiamento, a tutti i livelli. A livello professionale e, soprattutto, a livello personale, dopo la fine della relazione con Matthew Barney, una separazione dolorosa da cui è scaturito il suo ultimo album, Vulnicura, lavoro che ha portato davanti al pubblico della Cavea dell’Auditorium Parco della Musica, a Roma, per l’unica data italiana del suo tour.

Un’ora e mezza, o poco più, di musica contemplativa, quindici brani tratti dalla sua più recente produzione – neanche un accenno alle sue hit più note, da Emotional Rescue a All is Full of Love, da It’s Oh so Quiet a Army of Me – affidati a un’orchestra d’archi di quindici elementi, a un percussionista e ai live electronics di Arca, il produttore venezuelano che si cela dietro al suono di Vulnicura; tutti vestiti rigorosamente in bianco, in modo da far risaltare il rosso della mise di Björk, un lungo abito elegantissimo abbinato a una maschera e a un velo, quasi a celarne il volto.

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Dietro la band uno schermo di dimensioni «ragguardevoli» rimanda video e filmati, molti dei quali a ricordarci il senso della vita, altri computerizzati e sincronizzati perfettamente con i ritmi «sintetici» scanditi dal percussionista e dal lavoro di Arca, e con i fuochi di artificio, che già prima del gran finale hanno fatto la loro comparsa, giusto per dare un tocco di spettacolarità in più. Il bruco si fa farfalla – come in uno dei filmati di cui sopra -, e il pubblico, ovviamente, sembra gradire molto, lasciandosi andare a ovazioni a scena aperta, quasi a ogni accenno di danza o di «saluto» della cantante, con quelle sue movenze a metà strada tra una star del cinema muto, una ancella e una divinità.
Ed è proprio un culto quello che provoca in molte delle 3500 persone accorse da tutta Italia (ma abbiamo sentito anche molti idiomi stranieri) per vederla all’opera (i biglietti sono andati esauriti, nonostante i costi non certo «light», nel giro di poche settimane già molti mesi prima della data), e come dei fedeli in totale simbiosi e in balìa della loro dea accettano il loro destino, come un karma. Perché se è vero che lo spettacolo è stato ineccepibile, in termini tecnici, è però altrettanto vero che l’anima e il pathos non sono gli ingredienti principali di questa pietanza nordica.

Un concerto fin troppo perfetto, ogni momento studiato precisamente a tavolino (ormai una costante nelle grandi produzioni internazionali); nulla viene lasciato al caso o all’estemporaneità, non una parola, non un accenno melodico variato a discrezione dell’artista, tutto deve scorrere come da programma, ed è questa la vera pecca – oltre alla consueta riluttanza di Björk all’interazione con l’audience e a uno striminzito e rapido bis con i fan non più seduti religiosamente, come da richiesta dell’artista, richiesta abbinata, ma da molti ignorata, a non utilizzare cellulari per riprese e fotografie, ma accalcati sotto il palco in attesa di un gesto, di un tocco o anche solo di uno sguardo da parte della loro sacerdotessa.

Gesti, tocchi e sguardi che non arriveranno, perché lei, la diva è, ammettiamolo, fredda come la terra delle sue origini, e non bastano i fuochi d’artificio per scaldare il tutto. Ma se all’uscita cogliamo la perplessità in qualche espressione e commento, il resto porta sul volto il segno indelebile di chi ha visto la luce, una luce chiamata Björk.