Facciamo vedere le cose belle non quelle brutte, lo dice Alessandro, uno dei due protagonisti di Selfie, il film di Agostino Ferrente mentre si filma nelle strade del rione Traiano, quartiere di camorra in quella Napoli la cui iconografia ha fatto cortocircuito con la sua realtà. La frase viene in mente guardando La paranza dei bambini, il film italiano del concorso, e in sala oggi, tratto dal romanzo di Roberto Saviano, anche autore della sceneggiatura insieme a Maurizio Braucci e al regista, Claudio Giovannesi, la storia dei ragazzini in guerra nel capoluogo partenopeo per il controllo ciascuno del suo pezzo di territorio. Sono piccoli, quindici anni, forse meno, hanno fame di soldi, di affermazione, le loro vite valgono poco e per questo le giocano senza risparmiarsi. Corrono veloci sugli scooter, non rispettano nessuna delle regole imposte dagli adulti; vogliono tutto e subito, i bei vestiti, la discoteca esclusiva, le Nike ultimo modello, il lusso nelle povere case, il rispetto, la paura. È solo questo? Fosse pure già basta. Nicola (Francesco Di Napoli) diventa subito il capo, gli altri lo seguono, i tradimenti e le vendette sono uguali a quelli dei grandi, forse persino più feroci. La scommessa, registica non è facile, «Gomorra» (la serie) è il rischio più grande da cui farsi intrappolare, Giovannesi peraltro lo conosce da vicino avendone diretto alcune puntate, cosa che gli ha permesso di familiarizzare, lui romano, col territorio.

DEL RESTO: viene prima il modello imposto dall’immaginario o la realtà? – che poi era la materia su cui lavorava Gomorra (il film) di Matteo Garrone, l’autorappresentazione di sé – e di un universo – in cui identificarsi. Se lo chiedono appunto i ragazzi di Selfie, appena hanno il telefonino in mano per riprendersi, e la solita storia di armi e camorra i due protagonisti non vorrebbero narrarla. Ma lo scarto è complicato, vale il fuoricampo come accadeva in L’intrusa di Leonardo Di Costanzo – di cui qui ritroviamo la protagonista, Valentina Vannino – o nel film di Bruno Oliviero Nato a Casal di Principe. E poi?
Giovannesi sposta questo confronto, non forza l’immagine ma concentra «strabicamente« il suo punto di vista sui ragazzini – che il casting accuratissimo ha trovato perfetti – sui loro guizzi e sul loro respiro dentro al mondo.

Nicola, Lollipop, Tyson, Biscottino, e tutti gli altri sono immersi nella realtà in cui vivono, da lì arrivano e lì sono cresciuti, ma al tempo stesso non vengono circoscritti con dogmi e sociologia: esistono, cercano un posto al mondo come sanno farlo, come possono farlo. Basta uno sguardo per decidere, quando Nicola vede la madre costretta a pagare il pizzo al boss locale dice: «Devo faticà», è sveglio, ci sa fare, ha l’energia ancora infantile di chi non conosce i tatticismi. E dopo che il suo capo viene arrestato in una retata il sogno di riprendersi il Rione Sanità diventa vero, è quasi una rivolta contro i soprusi, e contro tutto quello che gli è sempre negato: le belle cose, le parti della città per i ricchi. Insieme al suo amore, Letizia (Viviana Aprea) Nicola va a teatro, al San Carlo, dove il velluto rosso è così morbido che viene da accarezzarlo. Troppo semplice? Forse.

MA L’AZIONE non conta, sono i suoi personaggi che Giovannesi mette al centro, e che segue con amore al di là di qualsiasi costrizione; era così anche nel precedente Fiore che viveva nel muoversi incessante dei due protagonisti, e poco importa se c’era la periferia romana o il disagio della galera perché spariva dentro la loro presenza. Qui accade lo stesso, e il corpo a corpo del romanzo di formazione assorbe gli arredi alla Gomorra, il letto imperiale, gli stucchi d’oro, l’orologio milionario, o le feste in discoteca da film di mafia americano tra le paure e i sussurri e i sogni di un 400 colpi del presente. Prima delle armi c’è la fragilità e c’è il sogno confuso di una giustizia. C’è il sussulto delicato dell’amore e la fantasia su luoghi lontani dove rifugiarsi e stare in pace. Tutto è cominciato e tutto deve ancora succedere. Siete pazzi dice il vecchio boss di un altro Rione ormai agli arresti domiciliari – Renato Carpentieri – mentre gli fanno scoprire il videogioco più terribile e difficile.

È IN QUESTO spazio tra la realtà e la sua astrazione che Giovannesi afferma la sua regia, e la libertà dei suoi ragazzini trasportati in un’epica che non si limita alla registrazione di una realtà o alle abitudini della sua immagine ma che è quella della vita, tragica o meno, scelta o imposta dalla casualità o dalle circostanze. Che la sua verità la racchiude nei momenti fragili, quelli che lo stereotipo non permette, in un istante di romanticismo in fuga, nell’esitazione o nel dolore, in una felicità che sa di adrenalina: quello che Nicola e gli altri cercano con incoscienza, senza farsi domande. Non li avevamo mai conosciuti in questo modo.