A Michelangelo Antonioni è toccato uno strano destino. È uno dei maggiori registi della generazione che ha traghettato il cinema italiano dal Neorealismo alle stagioni successive. Il suo nome figurerebbe a buon diritto in una triade, con Fellini e Pasolini (il quale, oltre alla sua posizione «eretica», ha scontato il fatto di essere stato percepito come letterato prestato al cinema: ma la sua capacità di innovare l’uso delle immagini e di pensarne la natura – fino alla tesi insostenibile e feconda della «lingua scritta della realtà» – non poteva restare troppo a lungo confinata). Altri registi sono altrettanto importanti, ma spesso hanno seguito strade più specifiche: Monicelli e Risi sono i Dioscuri della commedia all’italiana; altri ancora, come Scola, hanno avuto in sorte di attraversare nel corso degli anni gli umori della società. Il da poco scomparso Bernardo Bertolucci e Marco Bellocchio appartengono a un’altra generazione, quella del Sessantotto. E dello spirito della rivolta porteranno nel cinema l’esigenza a tornare a fare, e in grande stile, film politici: non film che parlano dell’attualità politica, ma che lavorano sul valore politico delle immagini, come ha argomentato in modo definitivo Pietro Montani. Poi verrà il resto, con le sue bellezze e le sue brutture, i suoi alti e i suoi bassi; ma questa è un’altra storia.

Accusa di intellettualismo, come PPP
Antonioni ha subìto un singolare fato in questa temperie. È già un regista artisticamente maturo quando trionfa il Neorealismo; lui stesso farà film importanti che sono perfettamente riconducibili a questo paradigma. Ma la sua poetica era inevitabilmente destinata a cercare altre strade, per ragioni anagrafiche prima ancora che estetiche. Questa condizione biografica, più ancora del suo temperamento, lo affida più di altri all’immagine dell’‘autore’ alla ricerca di una definizione sempre più precisa e profonda del proprio ‘stile’. E questo stile è associato spesso a concetti come «alienazione», «incomunicabilità». Una micidiale battuta che Dino Risi fa pronunciare a Vittorio Gassman nel Sorpasso ci consegna un ben noto e diffuso giudizio sul cinema di Antonioni, del tutto inaccettabile, o ammissibile solo a patto di precisare che non si sta parlando dei film del regista, ma di una moda dell’incomunicabilità che imperversò in quegli anni fra una certa borghesia che oggi chiameremmo «radical chic». Quel che è peggio è che quel giudizio sommario su Antonioni «cantore dell’incomunicabilità propria dell’alienazione moderna» – ma cos’è l’incomunicabilità? Cos’è l’alienazione? Non ci è dato saperlo –, lo consegna ipso facto allo stereotipo di un regista iper-letterario e iper-filosofico: uno, insomma, per il quale fare film è né più né meno che una scusa per esporre pensieri che troverebbero forse nella pagina scritta una collocazione più adatta, mentre le immagini ne sono solo una vivida illustrazione. Antonioni sopporterebbe, in altre parole, un destino analogo a quello di Pasolini: l’accusa di scadere nell’intellettualismo e, di conseguenza, di rendere trasparente e, per così dire, innocuo il medium. Fare sì che non ne vada alcunché di fondamentale per il messaggio dal fatto che quest’ultimo passi attraverso immagini e non attraverso la pagina scritta. L’opposto, se si vuole, di un cinema politico, inteso nel senso più profondo.
Che le cose non stiano così viene a ricordarcelo il bel volume Io sono il fotografo Blow up e la fotografia, pubblicato da Contrasto e dedicato a uno dei film più famosi di Michelangelo Antonioni, uscito nel 1966 (pp. 192, euro 24,90, con 40 fotografie ca. a colori e in b/n). Prima però di parlare dell’importanza di questo film e di come questo libro ce lo presenti in una luce inedita, costringendoci a rivedere tutti i facili pregiudizi sull’opera del regista, vale la pena considerare un momento il volume dal punto di vista materiale: la copertina rigida, la qualità della carta, il gran numero d’immagini – e non poteva essere altrimenti per una casa editrice specializzata in fotografia, anzi leader nel settore, come la Contrasto; e, non ultimi, l’assortimento e la qualità degli interventi e dei materiali raccolti. Tutto ciò fa di questo libro un bellissimo oggetto, sia dal punto di vista della confezione che da quello del contenuto. Si aggiunga, poi, un prezzo davvero competitivo, di poco superiore se non del tutto paragonabile a quello di qualsiasi altro saggio, che non richiederebbe certo un analogo investimento economico per la resa degli apparati iconografici. Ma veniamo finalmente ai contenuti, che ci fanno scoprire aspetti inediti o poco conosciuti di un film e di un regista tanto celebri quanto – ripeto – spesso fraintesi.
Prima di tutto c’è la fonte d’ispirazione di Antonioni. Si tratta del racconto di Julio Cortázar Le bave del diavolo. Il racconto è pubblicato nel volume ed è un materiale prezioso per il lettore che voglia ricostruire criticamente la genesi di Blow up, oltre a essere di per sé un’esperienza di lettura godibilissima come sempre è la prosa di Cortázar. Nel suo bel saggio, Ernesto Franco – finissimo studioso di cose letterarie, egli stesso scrittore, e direttore della Einaudi, da sempre casa editrice di riferimento dello scrittore argentino – ricostruisce il passaggio dal racconto al film: una vicenda fatta a prima vista più di differenze che di somiglianze. Il racconto, infatti, è solo uno spunto per Antonioni, il quale se ne distacca ampiamente nella costruzione della trama del film. Cortázar parla di un fotografo dilettante, il quale, uscito a fare due passi, si imbatte (a distanza) in una situazione che vede coinvolti un’avvenente signora, un adolescente e un uomo appostato alla guida di un’automobile. È una situazione non priva di ambiguità erotiche e non solo, che il protagonista tenta d’interpretare dalla sua distanza scattando alcune foto. Come si accorgerà subito chi già conosce il film, Antonioni recepisce la pretesa del protagonista – fotografo di professione e non più dilettante – a saper comprendere la realtà attraverso l’obiettivo del suo apparecchio, ma cambia completamente la cornice narrativa e anche la collocazione della storia: il racconto è ambientato in una Parigi malinconica e leggermente sordida che fa pensare a Prevert e Doisneau; il film si svolge nella swinging London degli anni sessanta e nello sfavillante mondo della moda.

L’ossessione delle immagini
Un dettaglio del racconto non è sottolineato, ma è importante per cogliere appieno lo spirito che deve aver mosso Antonioni nell’ideare Blow up in seguito alla sua personale lettura. Il narratore varia sovente la persona del protagonista, passando dalla prima persona della sua coscienza di spettatore alla terza persona di un se stesso visto dall’esterno, o completamente riassorbito nella testimonianza impersonale dell’occhio meccanico dell’apparecchio fotografico. È un indizio importante per ripensare il significato del film. Lo strano e ossessivo rapporto del protagonista con le immagini fotografiche non appare più, in questa prospettiva, come l’esempio eclatante dell’alienazione dell’uomo moderno; bensì come la prima configurazione, e forse la prima risposta, a una società e cultura in cui attraverso i media non passano solo i messaggi, ma gli stessi processi di formazione del pensiero e di decodifica della realtà (un critico profetico di questa nuova funzione dei media è stato senz’altro Vilém Flusser). In questa prospettiva, Blow up non sarebbe una riflessione sulla sostituzione della comunicazione umana con una comunicazione filtrata dai media, dunque sull’alienazione dell’uomo nella tecnica; è una tesi su cui d’altronde sembra ancora insistere Alberto Moravia nell’intervista ad Antonioni pubblicata nel volume. Il film sarebbe piuttosto un primissimo esempio di riconfigurazione dello sguardo umano attraverso le sue nuove «protesi», non solo percettive ma anche cognitive, oltre a risultare una formidabile anticipazione della «rimediazione» teorizzata da Jay D. Bolter e Richard Grusin: è infatti il cinema, in quanto racconta la fotografia, che ci fa capire cosa (e come) vediamo attraverso di essa.
I due bei saggi di Philippe Garner e Walter Moser corroborano questa ipotesi interpretativa, mostrando, uno dal punto di vista teorico e l’altro da quello storico, come Antonioni, prima di iniziare a lavorare, si fosse documentato in maniera approfondita non solo sul mondo della moda, ma sulla personalità e le abitudini dei fotografi. In conclusione, questo libro ci lascia con la piacevole sensazione che una strenna natalizia possa costituire un nutrimento della mente, oltre che un «piacere» dei sensi.