La prospettiva filosofica entro cui si muove il pensiero di Rino Genovese appare costantemente sollecitata dall’esigenza di tenere assieme due lembi di un unico paradosso: da un lato, il relativismo scettico, come arsenale teorico autoriflessivo attraverso il quale districarsi nei meandri di una modernità spesso incomprensibile; dall’altro, l’esigenza di un socialismo che accantoni le sue pretese universalistiche e lavori piuttosto sui conflitti particolari. A rileggere dunque la versione rivista e aggiornata di un libro che Genovese aveva pubblicato nel 1995 col titolo La tribù occidentale. Per una nuova teoria critica, ora proposta da Rosenberg & Sellier come Un illuminismo autocritico. La tribù occidentale e il caos planetario (pp. 188, euro 18), sembra che la diagnosi di una modernità incapace di realizzarsi compiutamente e schiava del suo perpetuo incepparsi nel consolidamento reiterato di un caos ingovernabile non abbia risentito dei suoi quasi vent’anni di vita. Tale è, difatti, il presupposto da cui parte Genovese: la modernità occidentale, con le sue pretese universalistiche e la sua idea (hegeliana) di progresso, si è dimostrata incapace di raccogliere le sfide di un mondo dissoltosi in un pulviscolo di particolarità in conflitto, in una congerie di storie frammentarie e in una molteplicità di varietà politiche.

La molteplicità delle storie

La realtà attuale si presenta agli occhi del filosofo non più retta dalle forme tradizionali e classiche della razionalità; piuttosto appare come implosa, e per questo aperta a molteplici possibilità in perenne dinamismo. Invano sarebbe ricercare in essa una logica, e tantomeno una logica dialettica – il libro di Genovese, in tal senso, vuole parimenti distanziarsi dall’hegelismo della Scuola di Francoforte, della cui lezione comunque raccogliere l’eredità, e dall’etica della comunicazione di Habermas. «D’altronde c’è, si può trovare, una logica nel caos?», si chiede l’autore. La risposta è appunto paradossale: «Se c’è, non può che essere quella del paradosso». Quest’ultimo, difatti, «implica un movimento immobile, un’oscillazione costante e infinita tra i corni di un dilemma che si ripropone ogni volta di nuovo: non c’è soluzione ma un’impasse che si autoalimenta di continuo», scrive Genovese nelle pagine introduttive. Siamo dunque fuori da un’idea di modernità in cui regresso, progresso, totalità, azione rappresentano il fondamentale lessico conoscitivo: il mondo attuale descrive, al contrario, una modernità incapace d’essere fino in fondo moderna e universale, costituita non dalla Storia con la maiuscola, ma da tante storie particolari che corrispondono ad altrettante curvature temporali.

L’idea che sta alla base di un relativismo antiuniversalistico si sostanzia di tale «antifilosofia della storia» e della convinzione che il moderno, per realizzarsi, ha sempre bisogno di un carico di ibridazione (termine-chiave per Genovese) tra culture, dal momento che non riesce a far meno dell’alterità e si presenta sempre incompleto a se stesso. Il fallimento dell’universalismo occidentale e illuminista trova, ad esempio, una cartina di tornasole negli attuali conflitti nordafricani: «Tunisia, Libia, Egitto, Siria (rappresentano) quattro figure odierne, diversamente conflittuali, del perdurante paradosso introdotto nella storia in primis dalla modernità occidentale e dalla sua pretesa universalistica». L’esito politico è prevedibile nella stessa forma assunta dal paradosso: un caso che è anche stallo e impossibile autoaffermazione. Allo stesso modo, la natura ibridante e paradossale della modernità è dimostrata dall’esistenza dei vari Gheddafi, Mubarak, Saddam, Bashar al-Assad: per Genovese, «tutti questi personaggi, folcloristici e mostruosi, sono il risultato non di una occidentalizzazione pura e semplice dei rispettivi paesi (come ritengono molti e tra questi, in primo luogo, i militanti islamisti), ma di una cattiva e imperfetta decolonizzazione, di una determinata risposta creolizzante della cultura locale all’Occidente, che ha comportato una modernizzazione distorta e uno sviluppo economico (del resto relativo) staccato da una ridistribuzione del reddito e dal progresso sociale».

Battaglie nella comunicazione

A meno che non si punti a un accantonamento dei presupposti su cui si era fondata la proiezione universalistica dell’Occidente sul mondo intero, la modernità sarà condannata ad avvitarsi sull’impossibilità di vedersi realizzata come unicum e come modello assoluto di civiltà, e di conseguenza ogni pretesa socialistica (figlia di quello stesso modello) sarà destinata a fallire. È dunque uno scetticismo relativista capace di abilitare un’idea plurale e particolare di storia a poterci condurre, secondo Genovese, verso una prospettiva socialista, liberata dai vincoli di un cattivo universalismo e disposta a ripensare le fissazioni ideologiche della modernità. Ipotesi innovativa, che però appare, agli occhi di chi scrive, eccessivamente sbilanciata sulla cura del particolare e dell’esclusivo, sull’esaltazione di una pluralità conflittuale (ma a-dialettica) che potrebbe forse giovare, ma allo stesso tempo produrre inconsapevolezza storica e incapacità di ricostruire i nessi di un intero sistema.

D’altro canto, non è, quest’ultima, una preoccupazione prioritaria per l’intellettuale, almeno a quanto emerge dal breve saggio che sempre Genovese ha recentemente dedicato alla condizione in cui versa questa figura. Ne Il destino dell’intellettuale (manifestolibri, pp. 126, euro 15, già recensito su questo giornale il 18 giugno), l’impegno per una visione scettica e relativistica del conflitto sociale è declinato in una chiave che più si avvicina alla riflessione sulla comunicazione e sulle connesse modalità di azione. Accettando l’idea che la società è fondamentalmente comunicazione, e dunque collocandosi senza nostalgia in un mondo in cui la difesa dell’umanesimo appare persino vetusta, Genovese ritiene che il compito dell’intellettuale consista in un corretto auto-posizionamento nel campo di battaglia. Era questo un assillo già di Gramsci. Ma quest’ultimo sapeva bene che dietro la capacità di collocarsi in un campo d’azione esiste un’illusione corporativistica e dunque una quota di falsità sociale enorme. E, d’altra parte, Genovese sembra ribadire in più luoghi che l’azione intellettuale debba essere necessariamente condita di spirito autocritico, debba cioè essere sempre scettica sulla fissazione dei punti di vista, e, di conseguenza, ostile a ogni forma di ideologizzazione. Si tratta di una proposta, certo. Ma, a guardare la condizione intellettuale (italiana), può apparire peregrina. Se è forse tristemente vero che non esistono grandi passioni ideologiche, è altrettanto vero che un impegno intellettuale che si limiti all’autogoverno della propria pratica comunicativa, e accetti dunque la possibilità di una collaudata impotenza sul piano dell’azione, rischia d’essere troppo aderente a una realtà parimenti infestata dalla frammentarietà della comunicazione (specie nelle sue forme estetizzate e spettacolari).