Nell’ampio ventaglio di sguardi specialistici, tra paesaggisti, architetti, agronomi, geofisici, urbanisti critici, convocati dalla Fondazione Benetton a intervenire a Treviso per le Giornate di studi sul paesaggio dedicate quest’anno al tema Suolo come paesaggio, si rileva l’eccentrica presenza di una coppia di artisti. Da sempre sensibili alle tematiche ambientali, il loro apporto in questa sede è significativo anche per una specifica metodologia di operare, tesa a ibridare pratica artistica e modalità della ricerca scientifica.
Con formazioni che provengono dalle scienze naturali e dall’architettura, Andrea Caretto e Raffaella Spagna, collaborano stabilmente dal 2002 con un approccio che definiscono «ecologico-sistemico». La forma delle cose, come dell’opera d’arte, è intesa come «manifestazione di forze incorporate», espressione di un complesso intreccio di relazioni, di viventi e non, che abitano in un ambiente dove l’artista agisce come una soltanto delle componenti in azione.

Tra le ragioni della vostra partecipazione alle «Giornate di studi sul paesaggio», c’è il fatto che avete già incrociato il tema quest’anno al centro del dibattito, «Suolo come paesaggio». In che forme è avvenuto questo incontro?
In effetti, suolo e paesaggio sono tra le questioni che hanno caratterizzato il nostro lavoro di ricerca artistica sin dall’inizio della collaborazione come duo. L’incontro con il suolo è stato inizialmente, come quasi sempre accade nel nostro operare, di tipo estetico, nell’accezione originaria del termine (dal greco aísthesis, percepire attraverso i sensi). Si tratta di un’attrazione istintiva per il suolo e per i processi di scambio e trasformazione tra organico e inorganico, vivente e non vivente che ivi hanno luogo, e per le complesse dinamiche delle relazioni che lo caratterizzano. Molto spesso in ambito accademico (ma non solo) si ha la tendenza ad affrontare le questioni legate a paesaggio, ecologia e sostenibilità, in modo astratto e teorico. Nel nostro lavoro il confronto diretto, estetico, con il reale, costituisce la pratica fondamentale. Riteniamo urgente, nell’epoca in cui viviamo, ritornare a fare esperienze nel mondo, uscendo fuori, rimettendoci nuovamente nel flusso della vita e della materia nella quale siamo immersi e dalla quale ci siamo chiamati fuori. L’invito ad abitare di nuovo il mondo, possibilmente in modo diverso, potrebbe essere il nostro contributo più importante in questa sede.

La vostra ricerca artistica si caratterizza per un procedere che ibrida una pluralità di competenze, saperi, linguaggi, anche scientifici, così come esperienze, sensibilità, pratiche. Come si declina questo approccio nello specifico di quanto è sopra e sotto il suolo?
La nostra è una pratica artistica molto aperta, transdisciplinare, e per certi versi «in-disciplinata», che cerca di mettere insieme approcci diversi, connessi sia alla nostra formazione ibrida che ai nostri interessi in vari ambiti (antropologia, pratiche agricole, geomanzia,…). Il nostro approccio si fonda su un’attitudine alla «presenza» e al coinvolgimento del corpo, e su uno stretto contatto con la materia e le sue trasformazioni. Si cerca di stabilire o ristabilire un rapporto con l’Altro (minerale, vegetale, animale, ecc.) su un nuovo piano, nel tentativo di riposizionarci, come esseri umani, spostandoci dal centro e mettendoci in ascolto degli altri enti che abitano il mondo. Tutto ciò per noi assume anche una forte valenza politica.
Il suolo è paradigmatico: è il luogo della convivenza e della mescolanza tra i diversi stati della materia e tra vivente e non vivente; qui hanno luogo simbiosi tra organismi di regni diversi (vegetali, funghi, batteri, ecc.) dalle quali dipende la sua fertilità e di conseguenza la vita sulla Terra. Inoltre il suolo ha a che fare con l’invisibile, è il luogo delle forze ctonie, della dimensione sotterranea. Ciò che vediamo sulla superficie terrestre, il paesaggio, le attività umane (prima tra tutte l’agricoltura), la morfologia di superficie, dipende indissolubilmente da ciò che è lì, nascosto sotto i nostri piedi. Nella nostra pratica questo si manifesta in lavori (installazioni, sculture, performance, azioni nello spazio pubblico), realizzati sia individualmente che attraverso azioni collettive, nei quali gesti piuttosto semplici, al di qua del linguaggio, quali il camminare, lo scavare una tana o una trincea, la spietratura di una porzione di terreno, l’osservazione di dettaglio di affioramenti e delle componenti della pedosfera, determinano una conoscenza diretta e «intima» del suolo.

Il riscaldamento globale sta ridisegnando la geografia del mondo, anche in termini di diseguaglianze sociali. Ci si può attendere una qualche valenza trasformativa da una nuova attenzione agli «spazi di mezzo», nella direzione del dare senso, riconnettere, riconciliare?
Pensiamo che le questioni ecologiche alle quali fai riferimento non siano in sé il problema, ma la conseguenza di un problema ancora più profondo, che ha a che vedere con il modo in cui ci relazioniamo con l’Altro da noi. Negli ultimi anni filosofi, antropologi, sociologi − pensiamo ad autori come Tim Ingold, Bruno Latour, Donna Haraway, Anna Tsing − in modi e con sensibilità diverse, si stanno interrogando sulla questione della criticità di questo rapporto e sull’urgenza di trovare un modo nuovo per riconnetterci con il mondo e sopravvivere in un tempo di grande crisi.
Viviamo in una sorta di stato di «anestesia», incapaci di percepire in modo profondo la complessità del sistema del quale siamo parte. Abitiamo in contesti dove pare impossibile convivere con le altre specie e occupare gli ambienti senza distruggerli. Nella tua domanda usi la parola «attenzione» che per noi è un termine chiave. Il nostro lavoro è infatti caratterizzato da pratiche di attenzione e cura per la materia, in ogni sua forma. In fondo il suolo è forse la cosa più importante che esiste; la sua conoscenza diretta e la sperimentazione delle sue caratteristiche può gettare una luce e rivelare il profondo intreccio di relazioni da cui si originano tutte le cose. Del resto, come dice bene Donna Haraway, «siamo compost, non postumani; abitiamo l’humusità non l’umanità.

 

SCHEDA

Il 20 e il 21 febbraio, a Treviso, presso la Fondazione Benetton, avrà luogo la sedicesima edizione delle «Giornate internazionali di studio sul paesaggio», che vedrà confrontarsi specialisti e operatori sul tema Suolo come paesaggio. Nature, attraversamenti e immersioni, nuove topografie. L’attenzione è questa volta posta proprio sul suolo «come» paesaggio. Nelle parole di Luigi Latini, presidente e animatore del comitato scientifico della Fondazione assieme a Simonetta Zanon, il suolo viene assunto come «tessuto connettivo, nutrimento e processo vitale che accompagna la nostra esperienza di vita, dimensione fisica ed estetica nella quale risiede la sostanza dei luoghi abitati e il senso della nostra appartenenza al paesaggio».
Introdotte dal direttore Marco Tamaro e arricchite da alcune riflessioni intese a declinare il tema anche tramite esperienze artistiche o uno sguardo filosofico, le relazioni di diversi specialisti esploreranno le Nature del suolo, estendendo l’indagine dalla complessità ecologica di questa infrastruttura di regolazione ambientale fino alle implicazioni di natura scientifica, sociale, culturale, estetica (dall’urbanista Rosario Pavia ai suoli extra terresti di Giacomo Certini). Analizzando poi con Suolo urbano, terre di città i contesti dove maggiormente si proiettano alcune tra le più interessanti sperimentazioni in relazione alle situazioni di crisi (tra gli altri Anna Lambertini e i paesaggisti della francese Wagon Landscaping). Infine proponendo un ampio ventaglio di Visioni, esperienze sul campo, dall’opportunità di opere di bonifica di aree industriali dismesse (studio Latz + Partner) a esperienze complesse come gli interventi nella Terra dei fuochi (Fabrizio Cembalo Sambiase e Antonio di Gennaro), fino alle ragioni di una bellezza dell’aridità in progetti di paesaggio nei terreni fragili (Juan Manuel Palerm Salazar). a.d.s.