È quasi chirurgica l’operazione di radiografare il presente e, al contempo, predisporsi alla cura che Cristina Morini ha fatto con il suo libro, Vite lavorate. Corpi, valore, resistenze al disamore (Manifestolibri, euro 16, pp 211). Senza accenno di posture vittimarie, senza ombra di piagnisteo, senza autocompiacimento, con lucidità potente, con elaborazioni maturate nel pensiero e nelle pratiche collettive, si ripercorre, con un dito sensibile, la trama del presente, che sulle donne («scelgo di utilizzare questo termine perché continua a rappresentare le/i negletti, le/i marginali, le/gli oppressi, chi è non-, chi è a-, chi è meno di-», spiega citando il saggio di Johanna Hedva, Sick woman theory) disegna il profilo di un modello fagocitante e insostenibile, che mostra elementi di crisi importanti che sono per noi opportunità da costruire.

SIAMO NELLE SETTIMANE in cui la Corte Suprema Usa interviene, di fatto con un divieto, l’interruzione di gravidanza. Segno prepotente e doloroso della lungimiranza di Morini di mettere al centro della trattazione il corpo, il sensibile, il tempo, l’amore, le comunità, l’affetto. Perché il capitalismo postfordista non è un sistema alternativo ad un altro, non è l’opzione dominante. È, al momento, il motore unico. Produce morte, con epidemie e guerre (a guardarlo dall’alto), con precarietà e povertà diffusa (a osservarlo dal basso). In questa tenaglia è la storia di questo oggi, argomentata e sostenuta da una bibliografia poderosa, usata con densa intelligenza per indagare gli interstizi delle nostre oppressioni, delle nostre tristezze. «Di conseguenza – scrive Morini- riorganizzare in modo diametralmente opposto il proprio spazio vitale e relazioni diventa una forma di resistenza eminentemente politica. Porsi dunque come outsider per ritrovare un respiro, per ricostruire un contesto erotizzato. È necessario mettere al centro la diversa inclinazione valoriale ed etica del lavoro produttivo rispetto al tempo improduttivo dell’amore. Si tratta proprio di immaginare un nuovo modo di stare nel mondo, libero dai condizionamenti legati al riconoscimento sociale». Un frammento questo, che restituisce il carotaggio dell’operazione fatta: guardare oltre i tagli che un presente osceno infligge sui corpi in modo non convenzionale.

NIENTE CRITICHE a quello che abbiamo sbagliato (buone per la sezione necrologi che straripa oltre ogni limite di spazio) ma preposizioni nuove, che maneggiano l’enorme tema della soggettività politica delle lotte inventandosi una strada meno nominalistica e più fattuale. Soggettività è ricominciare a pensare al welfare, che consenta un riequilibrio non formale delle forme di lavoro, ricominciare a uscire dalla dualità «lavorototale contro improduttivitàmalata», per riprendere le intuizioni di Franco Basaglia e Franca Ongaro, preveggenze di quello stravolgimento nevrotico che consiste nell’essere imprenditori di sé stessi, con il corollario prestazionale che satura lo spazio esistenziale con la pretesa di una prestazione continua, che non conosce interruzioni, nemmeno per malattia, nemmeno per stanchezza, nemmeno per stare con gli amici.

IL PARTICIPIO «lavorate» con il quale si descrivono le vite di questa epoca dice molto, dice a largo spettro: come ci avvertiva Benedetto Vecchi quando descriveva la completa sussunzione di tutto lo spettro esistenziale da parte del mercato. Questo diabolico mettere a profitto il sogno, la sostituzione del godimento compulsivo al desiderio, lo smarrimento di sé in una miriade di comandamenti sociali che ci sfiancano, con la loro prescrizione di realizzazioni, che sono solo ingranaggi mortiferi.
Va recuperata «in questo contesto di vuoti – si cita John Keats e il suo concetto di Negative capability – la capacità di stare nel dubbio, nell’incertezza, senza l’impazienza di correre dietro agli eventi, oppure senza voler far prevalere la ragione sull’emotività e viceversa. Questo termine descrive il senso del limite che fa parte di noi, dunque anche la capacità di tollerare e convivere con ambiguità e paradossi, di essere in grado anche di sopportare risposte relative, di reggere l’ansia e la paura». È anche questo abitare il margine di bell hooks e riscattarlo. È in questo rovesciamento del tavolo che troveremo una direzione soggettivizzata.