Che cos’è il diritto di resistenza? Qual è il suo senso oggi? Esiste una interpretazione canonica di questo antico istituto avente per sua natura vocazione costituente? È possibile invocarlo oggi in modo rilevante, in via offensiva o difensiva, di fronte al protrarsi dell’ illegalità costituzionale in tanti paesi europei incluso il nostro?

La ragione per aprire un dibattito su questo tema oggi è più profonda rispetto al fatto che episodi di ribellione «costituente» si stanno verificando un po’ ovunque in Italia e che la magistratura e l’amministrazione stentano ad immaginare risposte diverse rispetto alla repressione penale. Infatti, da più parti è stato osservato che la crisi della sovranità statale ha determinato il risorgere di condizioni istituzionali «neo-medievali» nell’ambito delle quali si sta svolgendo un processo globale di concentrazione del potere dotato di valenza costituente. Proprio come nel corso della prima modernità gli Stati nazionali, pur con notevoli differenze l’uno rispetto l’altro, subivamo dall’alto la sfida dell’Impero e della Chiesa e dal basso quella delle rivolte contadine incentrate sui beni comuni, anche oggi, in piena postmodernità, la sovranità è contesa. I termini della contesa sono ovviamente diversi perché a metà del diciassettesimo secolo il capitalismo era nella sua fase nascente, mentre oggi è in una fase di tarda maturità in gran parte del mondo.

Tradizioni divergenti

La partita dunque è la concentrazione del potere in dimensioni più ampie rispetto alla statualità. Le soggettività sovranazionali in lotta, pubbliche o private, sono oggi immensamente più potenti in rapporto ai sovrani statali del Sacro Romano Impero, della Chiesa di Roma o delle Compagnie delle Indie. Quanto alle sfide «dal basso» è interessante domandarsi se la lunga stagione dei diritti e del costituzionalismo borghese le abbia rafforzate o piuttosto indebolite. È difficile negare che alcune garanzie costituzionali ed alcune innovazioni tecnologiche, prima fra tutti Internet, abbiano reso, almeno in certi contesti, la resistenza al potere costituito meno rischiosa di quanto non fosse un tempo. I contadini guidati da Thomas Muntzer e i Comuneros rivoltosi in Spagna nella prima parte del sedicesimo secolo, i Diggers e Levellers inglesi ai tempi dell’esercito di Cromwell oltre un secolo dopo e i Comunardi parigini rischiarono e subirono repressioni di durezza inaudita. Allo stesso tempo, però, l’appropriazione ideologica dell’illuminismo da parte del capitalismo realizzato e dei suoi cantori ha portato al trionfo ideologie individualizzanti che sono proprio quelle che hanno finito per depotenziare lo stesso senso del diritto di resistenza.

Vale perciò la pena di far tesoro delle conseguenze dell’apparente processo di democratizzazione del diritto di resistenza il quale fu teorizzato dal giusnaturalismo spagnolo, dalla tradizione calvinista e dalla distorsione interpretativa del pensiero luterano, nell’ambito di una visione dello Stato, della sovranità e del popolo molto diversa da quella moderna. Bisognerebbe tener presente che il filosofo e giurista francese Jean Bodin, arruolato fra gli inventori della sovranità moderna, considerava il corpo sociale non già come un aggregato di individui (come fece invece Thomas Hobbes) ma come un aggregato di «famiglie, collegi e corporazioni». In Spagna la stessa visione, condivisa dal giurista Francisco de Vitoria e dal gesuita Francisco Suarez (che da giurista cattolico invocò la resistenza anche armata contro Giacomo I d’Inghilterra che rivendicava sovranità divina) era quella neotomistica dello Stato come un corpo, unità organica.
Tale visione era accompagnata da una nozione trascendente di bene comune come qualcosa di diverso e superiore del semplice aggregato del bene individuale delle sue parti, portatrici di interessi divergenti che necessitavano di una sintesi. Il popolo, il cui governo era basato su leggi civili frutto di una cessione eterna di diritti naturali individuali al governante (era questa dell’irrevocabilità del consenso una visione condivisa dallo stesso Thomas Hobbes ma non da John Locke), era un corpo immortale superiore allo stesso Re. Gli individui muoiono ma il popolo come comunità rimane. Questa concezione del popolo rese possibile la convivenza di diritti naturali individuali con nozioni di sovranità assoluta, accompagnata tuttavia da un diritto di resistenza in casi estremi in cui il sovrano violasse profondamente le stesse ragioni che ne giustificavano il potere.

Durante la prima modernità questa concezione dello Stato, frutto di una visione medievale di diversi corpi politici in vario modo in conflitto per la sovranità, era ancora alla base tanto dei Cahiers de Doleance con cui gli avvocati del Terzo Stato rivendicavano sul finire del sedicesimo secolo di riequilibrare le disarmonie create dai privilegi eccessivi di clero e nobiltà, quanto delle stesse teoriche della resistenza, elaborate in Francia dai costituzionalisti ugonotti Francois Hotman, Theodore Beza (successore di Calvino a Ginevra) e Philippe Du Plessis Mornay, ai tempi delle guerre di religione esplose nel 1562. In tutte queste concezioni – spesso indicate come antenate del costituzionalismo borghese e che che affondavano le radici nella teorica di Niccolò Machiavelli – il diritto di resistenza non poteva configurarsi come individuale ma poteva soltanto appartenere a «magistrature inferiori» o «corpi collettivi» dotati di una pretesa di giurisdizione. Suarez per esempio riteneva necessaria l’autorizzazione del Papa per esercitare il diritto di resistenza; in ogni caso esso era riconosciuto con riluttanza estrema (da Lutero e fra i giuristi da Grotius); non era mai assegnato alla moltitudine popolare. La necessità di sterminare i ribelli, «come cani arrabbiati» secondo Lutero qualora questi si facessero portatori di istanze dal basso (come nel caso delle ribellioni contadine), pareva mettere d’accordo tutti. Fu la struttura istituzionale dell’Inghilterra a modificare in senso moderno il diritto di resistenza producendone quell’individualizzazione che soltanto superficialmente può considerarsi come una sua democratizzazione.

L’emancipazionismo liberale

In Inghilterra infatti la costruzione di uno Stato unitario fu compiuta molto presto e a differenza che in Spagna e Francia fu raggiunto fin dalla Magna Charta un accordo all’interno delle strutture dello Stato fra proprietà terriera e monarchia (naturalmente a spese dei beni comuni). La guerra civile e la Rivoluzione di Cromwell non furono dunque contese per definire quale fosse il luogo della sovranità (e dunque scontri costituenti) ma furono conflitti di potere anche molto aspri ma interni allo Stato costituito. Fu questa essenzialmente la ragione per cui nel sedicesimo secolo si sviluppò una tradizione di pensiero politico nell’ambito del quale gli individui senza mediazioni di corpi intermedi, potevano essere visti come parti costitutive della comunità statale (Commonwealth). Fu Sir Thomas Smith, ambasciatore di Elisabetta in Francia, in un libro pensato anche per il pubblico francese a definire il commonwealth o societé civil come «una società o un agire comune di una moltitudine di uomini liberi legati insieme da un comune accordo per la propria conservazione tanto in pace quanto in guerra», in contrasto chiarissimo con la visione di Bodin fondata sulle corporazioni.

Naturalmente, prima di salutare con il solito entusiasmo acritico le radici emancipative del pensiero liberale, occorre osservare come Smith mettesse in chiaro subito che ci sono uomini liberi che non contano, non governano, non votano, ma possono solo essere governati. Fra questi: «i lavoratori giornalieri, i mercanti e i commercianti che non hanno terra, gli artigiani e i contadini piccoli proprietari, i sarti, i calzolai, i carpentieri i muratori, i produttori di mattoni ecc.. questi non hanno né voce né autorità nel nostro commonwealth». Ora, lasciando da parte la facile oservazione per cui costoro «contavano» eccome in Francia o in Italia qualora racolti in corporazioni, merita di osservare che fu un allievo di Thomas Smith, il Vescovo John Ponet che elaborò per primo, correva l’anno 1556, una teoria della resistenza anche violenta ad opera di individui privati (naturalmente solo quelli parte del commonwealth di Thomas Smith) nel caso di usurpazione sovrana dei loro diritti. In materia di resistenza Ponet stava a Smith come i costituzionalisti ugonotti a Jean Bodin. Nelle concezioni inglesi al centro di tutto stava l’individuo (proprietario) portatore di diritti e di potere; altrove il «collegio o la corporazione», ossia un corpo collettivo portatore di doveri e di giurisdizione.

Nella gabbia dello Stato

È noto che fu l’individuo proprietario, principalmente il protocapitalista agrario, il protagonista vero della rivoluzione inglese, del protettorato di Cromwell e di quel grande compromesso del 1688 fra proprietà privata e sovranità pubblica «divisa» celebrato come rule of law. Il diritto di resistenza proprietario, mai proletario, venne mobilitato nel corso delle rivoluzioni del diciottesimo secolo e quando il suffragio elettorale fu finalmente esteso, a capitalismo ormai realizzato, la rule of law è stata guardiana, allora come oggi, di ogni ripensamento profondo dell’accumulo proprietario individuale. Doveva infine essere più di ogni altro John Locke a depotenziare attraverso un capolavoro di ipocrisia politica che gli fruttò fama eterna, ogni pretesa dei levellers (che comunque in gran parte non mettevano in discussione la proprietà privata ma lottavano per il suffragio elettorale) dei diggers e di ogni altra anelito di emancipazione dei subordinati. Egli chiuse così definitivamente, in solo apparente contrasto con Hobbes, la tenaglia dello stato e della proprietà privata su ogni istituzione del comune.

L’appropriazione capitalistica dell’illuminismo e la grossolanità di certa sua critica postmoderna, capace di appiattire luoghi e protagonisti quanto mai diversi, fece il resto fino a giustificare oggi visioni caricaturali dei beni comuni. In ogni caso adesso, quando non mi par tempo di moderazione, la sola politica degna di esser vissuta deve articolare nella teoria e nella prassi un diritto di resistenza collettivo che si emancipi dall’illusione individualistica e sappia interpretare la comunità come libertà.