Istruzione, compassione, lavoro, libertà di viaggiare e vedere il mondo. Sono alcune delle parole chiave di una costituente molto particolare, composta dai detenuti islamici della Dozza, il carcere di Bologna, insieme ai quali un volontario religioso, Fra Ignazio, conduce una serie di incontri sulla comparazione della costituzione italiana con quelle islamiche – in particolare marocchina, tunisina e egiziana. A riprendere questi incontri c’è Marco Santarelli, regista romano, e occhio sensibile del documentarismo. Il risultato, Dustur, è ora in concorso al parigino Cinéma du réel (18-27 marzo). Un film questo (prodotto con bella indipendenza da Rino Sciarretta) «che viene da lontano», le cui radici rimandano al precedente milleunanotte, anch’esso girato alla Dozza, e almeno per una parte nel «braccio marocchino».

Dustur in arabo vuol dire costituzione, l’insieme di norme che come Fra Ignazio spiega ai detenuti non è solo una successione di parole e formulazioni giuridiche astratte ma un corpus di regole e diritti ancorati alla Storia e alla realtà. E «la forza delle parole» è proprio il tema del film, costruito, come dice Santarelli, «quasi interamente sui primi piani dei ragazzi e sui loro pensieri». Tra loro c’è Samad, ex detenuto marocchino che ha scontato una pena per traffico internazionale di stupefacenti e ora studia giurisprudenza. Nel carcere è tornato su invito del regista per partecipare alla costituente.

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A emergere con forza è soprattutto la necessità della scolarizzazione e del lavoro come diritto, anche se l’unico argomento che accende gli animi dei partecipanti è quello della libertà religiosa. Quando vengono posti di fronte all’eventualità di un musulmano convertito al cristianesimo o a un’altra religione molti sono contrariati: «Se Dio non lo accetta, come posso farlo io?». «Soprattutto a Bologna sono tantissimi i detenuti stranieri come anche i volontari che fanno iniziative e corsi per scolarizzare questi ragazzi, molti dei quali fanno fatica anche a parlare e scrivere in arabo» dice Santarelli.

Il film si chiude con i detenuti che trovano le parole chiave della loro costituzione. Quel lavoro ha avuto un seguito?

Mi piaceva l’idea di concludere su quei concetti. Il lavoro è andato avanti anche dopo la fine delle riprese, hanno messo insieme moltissimi appunti che poi sono stati pubblicati in un libro della Regione Emilia Romagna curato dalla garante dei detenuti che ha patrocinato il corso. L’idea mi sembra molto forte: è la prima volta che in carcere si affrontano argomenti di questo tipo, e soprattutto che vengono messi a confronto valori e articoli della nostra costituzione con quelli delle costituzioni arabe. A pensarci è stato Fra Ignazio, un volontario religioso con una storia particolare: ha vissuto tanti anni in Siria, dove ha imparato l’arabo, ha una laurea in giurisprudenza e un dottorato in diritto islamico.

Come si è relazionato con i detenuti? 

Durante le riprese ho dato solo raccomandazioni di carattere tecnico, il resto è venuto naturalmente perché con molti di loro c’era un rapporto quasi familiare. Specialmente con Samad, che aveva già partecipato a milleunanotte e col quale sono rimasto in contatto perché volevo fare un film su di lui e la sua vita fuori dal carcere. In Dustur i corsi e la vita di Samad procedono parallelamente per poi incontrarsi nel finale, quando torna alla Dozza per partecipare agli ultimi incontri. Ho ripreso le «lezioni» quasi sempre da solo,proprio con l’obiettivo di costruire un rapporto con i ragazzi. Ho pensato che se ci fossero stati altri insieme a me sarebbe stato più complicato. Ma ha anche aiutato il fatto di girare in una biblioteca, un posto molto piccolo, pieno di libri, dove tutti sedevano intorno a un tavolo.

 

«Dustur» arriva in un momento in cui l’argomento trattato è di strettissima attualità…

Sapevo che avrei toccato un tema di attualità, un argomento «caldo» ma non immaginavo ciò che sarebbe accaduto. Durante le riprese c’è stata la strage di Charlie Hebdo, e appena prima che finissi il film, a poche settimane dal suo debutto al festival di Torino, ci sono stati gli attentati di Parigi.

Nel finale si esce dai luoghi in cui si svolge tutto il film per fare visita al cimitero di Casaglia di Monte Sole, teatro della strage di Marzabotto.

Dustur è costruito quasi interamente sulla parola, perciò non mi interessava particolarmente mostrare il carcere o la casa di Samad: è stata una scelta stilistica. Aprirmi allo spazio esterno nel finale è stata invece una cosa che ho avuto subito in mente: avvertivo l’urgenza di mostrare il cimitero di Monte Sole perché era importante tornare dove eravamo partiti, nel luogo simbolo della Resistenza e dunque della costituzione. Volevo che i concetti che vi sono espressi avessero un’anima, venissero legati alla sofferenza e ai fatti concreti da cui sono nati, altrimenti potrebbero sembrare solo parole scritte una dopo l’altra. La nostra costituzione non è nata in un salotto, e il cimitero di Monte Sole – vicinissimo tra l’altro al monastero dove ha vissuto Fra Ignazio – è un luogo simbolico tanto quanto la biblioteca del carcere in cui si svolge la costituente dei detenuti.