In che modo si presenta il progetto del workshop dal punto di vista degli insegnanti?
Oggi è molto facile produrre immagini, basta un telefonino per farlo. Per questo le persone lavorano spesso in solitudine: fanno i loro film da soli, li montano a casa, e ne fanno moltissimi. C’è una sovraproduzione di documentari, e non solo. Per questo si procede da soli, per tentativi, e chi ce la fa arriva ad avere chiaro cosa vuole fare. Inoltre il sistema produttivo non riesce ad intercettare la varietà, la ricchezza e la complessità di questi approcci, perché è troppo normato, mentre ci sono lavori che necessitano un’attenzione completamente diversa.
Così qualche anno fa abbiamo progettsto un tipo di workshop pensato per intervenire nella fase vissuta di solito in solitudine. L’idea era che dovesse funzionare come un orecchio offrendo un primo ascolto ai progetti aiutando gli studenti a trovare il loro cammino. Di volta in volta verifichiamo come vanno avanti, anche se questo non significa necessariamente che alla fine il film sarà bello.

 
Quali sono i limiti ed i pregi dei progetti di In progress?
I ragazzi hanno tutti un diverso grado di consapevolezza di sé, del proprio modo di lavorare. I più bravi sono quelli che non mi hanno mai raccontato molti «fatti», ma che si pongono il problema di come fare. Molti hanno invece un atteggiamento un po’ «letterario», sono totalmente teorici, come se volessero scrivere un saggio e poi trovare un modo per metterci delle immagini sopra. Come se il film servisse a dimostrare una serie di tesi; ma questo è un approccio sballato perché si perde la forza del documentario cercando di chiudere dentro a un modello prestabilito una realtà che è molto più complessa. Fanno il lavoro che deve fare chi guarda il film e poi ne discute: dei temi che tocca, di che altre opere ricorda. Purtroppo è una mentalità molto difficile da scardinare, è quasi più il compito di un sociologo che di un regista; e si ritrova nella stragrande maggioranza dei tantissimi documentari che si fanno oggi, illustrazioni di tesi politiche e militanti che generalmente non fanno granché bene né alla causa né al cinema.

 
E cosa dovrebbero fare invece?
Occuparsi di mettere insieme immagini che in sé hanno una forza, e solo dopo vedere che cosa raccontano, cosa evocano, come dialogano con le grandi questioni dell’uomo, con le tematiche sociali, politiche. Ma le cose per quanto rigurda i progetti di questi ragazzi sono già cambiate: al primo incontro eavamo allo stato delle teorie, i progetto avevano la forma di piccoli trattati di sociologia, piano piano sono loro stessi a proporre nuove soluzioni.