In un’intervista del 1981 Michel Foucault diceva: «il problema non è quello di scoprire in sé la verità del proprio sesso, ma di usare la sessualità per arrivare a una molteplicità di relazioni. Si tratta di chiedersi quali relazioni possono essere istituite, inventate, moltiplicate, modulate attraverso l’omosessualità». Questo divenire-omosessuale esprime bene la direzione verso cui, negli ultimi tre anni della propria attività, Foucault aveva orientato la ricerca. Non sorprende, dunque, che in questa torsione Foucault abbia dissodato il terreno della tarda antichità, dedicando gli ultimi tre corso al mondo greco-romano: non cercando nella verità degli antichi il senso del presente, ma piantando il concetto di parrhesia, di «parlar franco» nel cuore del tempo presente.
Su questi ultimi anni del filosofo francese giunge ora in libreria, come esito di una ricerca collettiva, La forza del vero (ombre corte, pp. 180, euro 15), curato da Sandro Chignola e Pierpaolo Cesaroni, con saggi, oltre che dei curatori, di Frédéric Gros, Gaetano Rametta, Paolo Slongo e Judith Revel. Appare chiaro, leggendo questi interventi, come l’analitica foucaultiana cerchi di liberarsi dall’«ossessione del potere» per analizzare «il sistema di mosse, strategie e tattiche attraverso le quali la force du vrai connota il contingente sistema di pratiche per mezzo delle quali viene prodotta e governata, anche sul lato del singolo, una funzione di soggettività integralmente assoggettata».

Sfuggenti e opachi

Si tratta insomma «non più di scoprire quello che siamo, ma di rifiutare ciò che siamo»: questo il compito etico che comporta l’assunzione della «forza» della verità. Basti pensare alla definizione (tratta da Polibio) di democrazia come forma politica fondata sulla compresenza di isegoria (pari dignità per tutti i partecipanti al gioco democratico) e parrhesia, e alla sua lettura (problematizzata da Rametta) come criterio dirimente per il pieno esercizio alla cittadinanza in un contesto come quello attuale nel quale, come ricorda Chignola, sovranità, rappresentanza e costituzione sono sempre più marginalizzate «a favore di una crescita degli istituti e dei corpi amministrativi» attraverso i quali lo Stato «cala i propri dispositivi di regolazione» in un ambiente che non può che essere «sfuggente e opaco», poiché solo a posteriori, dopo averne valutato gli effetti in termini di efficienza, ne sarà determinata la legittimità.
In questo cantiere di ricerca i materiali di Foucault possono essere disposti secondo il duplice punto di vista dei processi di soggettivazione e dell’etica del lavoro intellettuale. Si tratta non solo di esercitare quella filosofia analitica del potere che descrive i processi di governance, «ma anche, e soprattutto, mettere in evidenza i processi di soggettivazione e di continua tras-formazione che il potere incrocia nell’atto del suo esercizio». Lo studio di procedure e istituzioni, discipline e apparati di governamentalità comporta anche la scoperta di come il soggetto, a sua volta, è capace di attuare strategia di desoggettivazione e governo di sé: accanto, a lato, contro le tecniche disciplinari, ci sono le tecniche del sé che permettono ai soggetti «di effettuare da sé un certo numero di operazioni sui propri corpi, anime, pensieri, condotte, in modo da produrre in essi una modificazione, una trasformazione».
La «scoperta» del mondo antico e tardoantico significa proprio questo: uno scarto etico centrato sulle diverse declinazioni della parrhesia, del discorso che non enuncia la verità come qualcosa di oggettivo e pre-giudizievole, ma che ha la forza etica di rendere possibile un discorso vero. Non una struttura epistemologica che ha la pretesa di «dire la verità sul soggetto» – «un dispiegamento di verità che àncora il soggetto alla funzione che lo costituisce come tale», come ad esempio «la verità del liberalismo àncora il soggetto al suo statuto di soggetto libero che si muove sul mercato» (Cesaroni), ma un’indagine sul modo in cui «il soggetto, per rendersi manifestazione della verità, deve modificare se stesso, deve trasformarsi, deve divenire altro da ciò che è usualmente». Non si tratta di discorsi astratti dalla ruvida sostanza delle cose: nel parlare delle differenti tecniche aleturgiche, Foucault parla anche delle lotte che si andavano sviluppando negli anni Settanta e Ottanta del Novecento. Lotte «trasversali», «immediate», cioè rivolte a obiettivi concreti e immediati, ma soprattutto lotte che «mettono in questione lo statuto dell’individuo». E al tempo stesso, nell’ultimo corso sul dire franco dei Cinici, parla di uno «stile di militanza» che rinvia al militantismo gauchiste, che «deve manifestare direttamente, nella sua forma visibile, nella sua pratica costante e nella sua esistenza immediata, la possibilità concreta e il palese valore di un’altra vita»: una militanza «nel mondo e contro il mondo», «che ha la pretesa di cambiare il mondo». Il che comporta un «ritorno» di Foucault alla filosofia: per articolare una struttura etica da assumere come discorso che struttura il soggetto che lo enuncia, che non recide «il nodo politico del rapporto di governo, ma piuttosto vuole renderlo instabile e “problematico”».

Una decifrazione del sé

In questa articolazione Foucault interseca Montaigne, come mostra Slongo: sul terreno comune con Montaigne – che resta tutt’ora da esplorare – emerge l’esistenza di una linea di demarcazione «tra una conoscenza volta alla pratica di sé», che comporta una continua «tras-formazione» del soggetto, e «una conoscenza di sé funzionante come una decifrazione di sé», come lavoro di scavo alla ricerca delle verità nascoste, dei piccoli segreti sporchi da portare alla luce e confessare. Ma forse, diceva Foucault in conclusione delle sue conferenze Sull’origine dell’ermeneutica del sé, «il problema che riguarda il sé non è scoprire cosa esso sia nella sua positività. Forse il problema, oggi, è cambiare queste tecnologie. In questo caso, uno dei principali problemi politici dei nostri giorni sarebbe, alla lettera, la politica di noi stessi».