Esce in una sontuosa versione restaurata in 4K Novecento di Bernardo Bertolucci, di nuovo in sala da ieri grazie al Cinema Ritrovato della Cineteca di Bologna.

E la domanda è: che cosa esce esattamente?

La difficoltà sta nel rispondere senza restaurare, con l’opera, anche la retorica che l’accompagna: affresco, capolavoro, munumento. Ovvero restaurare solo il bambino senza dell’acqua sporca; dimenticando la nostalgia che quell’epoca del cinema (dell’industria cinematografica) inevitabilmente suscita e che in questo caso si somma alla nostalgia che il film già allora esprimeva per quel buffo secolo cominciato tardi e finito presto, forse già nella primavera del 1945, dove Bertolucci inscena l’effimera morte del padrone, certo nel 1976 da dove, con una breve coda chapliniana, si chiude il sipario sulla lotta servo padrone o la si rinvia all’inizio.

 

 

In questo circolo narrativo ed estetico al tempo stesso, c’è nondimeno un fine; ed è vero che Novecento parla effettivamente del nostro secolo. E per questo merita l’espressione «grande affresco storico » che Bertolucci assume con sfrontatezza e rivolta maliziosamente fin dalla prima inquadratura: il lungo carrello che lentamente si allontana dalla tela di Pellizza da Volpedo. Per altro, il Quarto Stato, a guardarlo bene, non è un affresco e non è storico: è un simbolo, come lo sono le cinque ore che seguono.

Simbolica, lo abbiamo detto, è la morte del padrone, che in realtà continua a vivere in quanto persona e, nonostante il processo (geniale) che gli viene fatto alla fine, vive anche in quanto padrone. Simbolico è il cast. Dal gattopardo ottocentesco Burt Lancaster al pater familias Sterling Hayden i quali rappresentano, non meno dei loro nipoti Depardieu e De Niro dei personaggi, dei tipi umani ma anche se stessi in quanto parte dell’industria cinematografica, della ripartizione di questa in film di serie A e di serie B, e delle rispettive filiazioni.

È noto che, oltre una certa taglia, un film non può avere altro soggetto che se stesso (in quanto macchina produttiva). È vero in generale ma soprattutto in questo film che è un caso e un emblema. Il caso di una sintesi improbabile tra la grande industria e il cinema d’autore. Ma proprio per questo prodotto, unico ma rappresentativo, della speciale identità del nostro cinema.
Novecento non è un dunque un film storico, è un film datato. E, se quest’espressione appare solo negativa, va detto che nel caso del film di Bertolucci è piuttosto un aggettivo positivo, tanto che si dovrebbe dire che è datatissimo.

Il suo realismo lo data al bordo estremo di un’età, quella in cui i «paesani» parlavano dialetto, sepolta. È la «forza del passato» di marca pasoliniana di cui è irrorato e che risplende nei volti e risuona nei canti dei contadini emiliani che Bertolucci ha voluto nel film. Ma che non sono solo per sé. Sono anch’essi un per l’altro. Stanno per i contadini dei kolkhoz, che la parte finale rappresenta infatti con l’estetica d’un musical di Ivan Pyriev. Sempre datata è la poetica della merda, associata ai padroni o impotenti o sadici. Con questa distinzione che il vecchio padrone ottocentesco cerca forza nella merda (e non la trova) mentre il nuovo padrone fascista ne rifiuta il senso (ed è condannato morire in un porcile).

 

 

Ma anche questo merdaio sta per altro: data il film ad un’operazione che Serge Daney chiamava «colorizzazione estetica» e che consiste nell’ imitare la grande forma del passato completandola di quel sesso che in King Vidor o in George Cukor era solo suggerito perché non si poteva o non si voleva mostrare.

Restaurare Novecento vuol dunque dire anche restaurare una domanda che quel cinema hollywoodi(pad)ano poneva: perché il cinema continua a mancarci? È vero che le cinque ore passano con la sensazione che in esse non si trovi nulla di effettivo; e che, in tutta la sua sfolgorante bellezza, Novecento non sia altro che una sorta d’immagine della coscienza, d’un riflesso o d’un battito o d’una fuga: come uno specchio messo davanti ad uno specchio.

È vero che quando il dolly di Vittorio Storaro si alza sulla fattoria mostrando l’intero di quel microcosmo emiliano in cui Bertolucci ha fatto entrare ed uscire tutto il secolo, l’ammirazione lascia lo spazio all’attesa che, da un momento all’altro, l’ultimo imperatore salti in scena a sgambettare su quei tetti e che il set sia il medesimo della Città proibita.

Ma Bertolucci non è solo un demiurgo. Sente e inverte tutte le dimensioni così come crede in tutti i rapporti di produzione. I suoi momenti più veri sono i più lirici o se si vuole i più ingenui – come quando Hayden leva gli occhi dalla falce e, guardando davanti a sé, dice semplicemente: «Si chiamerà Olmo».

In questi attimi, di cui il film non è avaro, il signore Bertolucci cede al servo, che ritrova la materia e la sensualità o se si vuole il «che» del mondo o ancora, nella lingua del film, il latte e la merda.