E’ da qualche anno che la Fondazione Emilio e Annabianca Vedova si avvale della collaborazione di Georg Baselitz facendo leva sulla grande amicizia che l’artista tedesco ha intrattenuto con il suo più anziano collega. Non vanno, infatti, dimenticati gli omaggi «in casa e in trasferta» che Baselitz dedicò a Vedova già all’indomani della scomparsa avvenuta nel 2006 con una Sala alla Biennale Arte dell’anno successivo. Seguirono poi altre esposizioni, soprattutto in Germania, fino al Vedova di/by Baselitz, allestito nel 2019 al Magazzino del Sale di Venezia per celebrarne il centenario della nascita. Un anniversario esteso anche a Milano nei primi mesi del 2020 con la mostra, l’ultima curata da Germano Celant e stando alla cronaca suo inconsapevole testamento insieme al monumentale e autobiografico volume The Story of (my) Exhibition.

Dunque: questi intrecci avvenivano, a osservar bene i tempi, un passo prima dell’esplosione della pandemia, che per l’appunto ha contato tra le sue vittime illustri anche il curatore ligure. Con le riaperture graduali di questi ultimi mesi e le nuove collocazioni di festival e kermesse artistiche, tra cui la Biennale Architettura, la Fondazione Vedova ha riannodato i fili del rapporto con Baselitz, consentendogli di esporre ancora al Magazzino del Sale i suoi ultimi lavori (e piace rammentare la battaglia condotta da Vedova per conservare tutta la vetusta area lagunare, oggi uno dei più importanti poli espositivi della città per come ospita a distanza di poche centinaia di metri sia la Fondazione a suo nome ristrutturata da Renzo Piano sia Punta della Dogana della Fondazione Pinault).

Questa nuova mostra dal titolo Vedova accendi la luce (fino al 31 ottobre) si specchia in quel Vedova spegni la luce, documento con cui Baselitz apriva il citato Vedova di/by. Qui il rapporto con l’artista veneziano si sposta al tratto ludico della relazione tra le intelaiature informali contrassegnate dal «nero» Vedova e le sprezzature colorate del pittore tedesco. Sebbene i titoli rimandino a un’enigmatica e difficilmente codificabile domanda che trova però dischiuse le porte per una libera interpretazione e in chiave sartriana dell’esistenzialismo che ha il suo grado zero nell’orizzontalità della storia dell’arte. E non pochi sono i movimenti post-avanguardistici europei della seconda metà del Novecento che intendono l’arte in tal senso e al medesimo modo con cui Baselitz inneggia ad affinità elettive piuttosto che a una presupposta verticalità che provochi, non senza conseguenze nel canone, una sequenza di maestri e allievi. Su questa base prospettica e dopotutto ancora aperta ad un discorso estetico e progettuale l’unica possibile sequenza che si osserva nel declivio espositivo del «Magazzino» e costringe a una piacevole prigionia degli occhi, si rivela nella capacità tutta dell’artista di cercare di espandere il proprio gesto ad una triangolazione tra spazio tempo e storia del luogo ove le opere sono visibili e finalmente in sintonia.