Acuto interprete di un’umanità agée nelle sue vignette e storie brevi, l’italo-argentino Daniel Cuello ha esordito al Salone del Libro di Torino con il suo primo romanzo: un titolo intriso di ironica nostalgia, Residenza Arcadia (Bao Publishing) che verrà presentato in questi giorni varie città del nord (Casale Monferrato, Milano, Palmanova, Sarzana). Nella sua Residenza Daniel Cuello presenta un gruppo di anziani condòmini che si oppone arcigno all’arrivo di nuovi inquilini. Niente di strano, ma assieme alla cifra umoristica che travolge il lettore, Cuello affronta temi di impellente attualità come la paura del diverso, l’intolleranza, l’oppressione e la staticità sociale, combinandoli con un’originale riflessione storica. Abbiamo incontrato l’autore a Torino, poco prima che le copie in firma andassero esaurite.

Daniel, vieni da una produzione che si muove in rete, principalmente orientata alla vignetta e alla storia breve. Residenza Arcadia è il tuo primo romanzo a fumetti. Come nasce questa storia?

Questa è la mia prima storia lunga ad essere pubblicata. Ho dovuto sempre prediligere le storie brevi per necessità di produzione e di tempo: sulle cose brevi si ha un controllo maggiore, potevo dedicarmi alle vignette con più tranquillità.

Per essere la prima storia lunga pubblicata, Residenza Arcadia ha una parte di testo verbale molto accurata e sviluppata. Si colloca all’altro polo della sintesi tipica della vignetta…Come ti trovi con questo tipo di testo?

In realtà questa è la forma che mi piace di più e se non l’ho coltivata finora è stato solo per le ragioni che ti accennavo, ma quando faccio fumetti, vorrei che fossero sempre storie lunghe. Ho tanto da dire e penso che Residenza Arcadia sia solo un antipasto. È una storia seria che mi ha permesso di utilizzare il mio tipico stile grottesco per affrontare temi importanti e di rappresentare i miei personaggi anziani che troviamo normalmente nelle mie storie, alle prese con valori fondamentali.

La storia è ambientata in una città di cui non conosciamo il nome, in un paese che non nomini, governato da un unico partito. Forse le tue origini hanno influito in quest’urgenza narrativa?

La storia ha tanto di me e del mio paese, anche se, come dici, ho lasciato queste informazioni nel mistero. Ci sono stati fatti della situazione internazionale che mi hanno spinto a mettermi al lavoro. Quando ho iniziato stava esplodendo la questione dei rifugiati in Europa: frequentando molto i social mi sono accorto che in rete si riversava l’odio della gente, un’intolleranza diffusa. Ho deciso di non raccontare la storia di chi viene discriminato, bensì di chi discrimina, affinché il mio lavoro potesse parlare di tutti i tipi di esclusione.

Infatti in nessun momento sappiamo in cosa si distinguono i nuovi inquilini dai residenti anziani, che li considerano “diversi”…

Esatto, potrebbero essere stranieri, una coppia di omosessuali: ad un certo punto avevo pensato di rappresentarli come scarafaggi, ma poi mi è sembrata un’identità molto connotata e ho deciso di non mostrarli, per garantire che la storia fosse universale.

È per questo che anche le guardie di regime – figure nere mostruose e feroci- rimangono così indefinite?

Volevo che il partito fosse rappresentato attraverso le parole dei personaggi, e che quel poco che si vedeva fosse approssimativo: le guardie sono macchie indefinite, sagome abbozzate delle quali si scorgono solo i denti aguzzi, figure ovviamente spaventose e feroci, come le dittature del ‘900.

I personaggi anziani popolano anche la tua produzione vignettistica, ma in questo caso sono sicuramente funzionali alla narrazione, proprio perché-come buoni residenti dell’edificio Arcadia- si oppongono all’arrivo del nuovo. Eppure hanno manie molto contemporanee, come Emilio, fanatico di Instagram, o sua moglie Dirce, appassionata di pietre energetiche e di cucina etnica. Che senso ha questa patina di modernità, quando poi nessuno di loro in fondo, cambia?

L’effetto è voluto: avevo bisogno di personaggi il più normali possibile, nessuno di loro è un supereroe, nessuno è un mostro: hanno le stesse debolezze di ognuno di noi e dei nostri vicini di casa. Per far capire questo principio, li ho affibbiato le stesse nostre manie. È uno stratagemma che ho inventato per rendere la storia liquida, ovvero senza tempo: i fatti di Residenza Arcadia potrebbero succedere in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. La storia potrebbe essere ambientata nella Germania nazista come nell’Argentina degli anni ’70 e non cambierebbe niente.

Ci sono solo due personaggi giovani che vengono letteralmente bistrattati da questo vicinato attempato e chiuso. Uno è il “supplente” del vecchio portiere, responsabile di aver affittato l’appartamento ai nuovi vicini indesiderati e l’altro è Ettore, il nipote di Dirce e Emilio, che si rivelerà fondamentale…

Parlando per metafore, i vecchietti rappresentano uno stagno, in cui non si muove niente; i nuovi inquilini sono un sasso lanciato nello stagno ed Ettore è l’onda che il sasso smuove: Ettore arriva e se ne va. Questo forse è un sottotema del libro: la fatica con cui le vecchie generazioni accettano le nuove e viceversa.

L’unico momento di apertura e confidenza tra le due realtà- tra il vecchietto Dimitri ed Ettore- si incrina drammaticamente…

Avevo bisogno di un punto di rottura tra le due generazioni, un momento che segnasse un prima e un dopo nel libro, agito proprio sulla sfera dei sentimenti, dove il disaccordo si fa automaticamente più aspro.

Che importanza hanno gli altri mondi, quello vegetale e quello animale, nel libro? Esiste una qualche simbologia nei petali di viola che Dirce lascia sul cuscino del letto di Ettore o nel canarino Ortis e nel cane di Dimitri, Rasputin?

Non c’è simbologia nei fiori, ma solo ispirazione dalla realtà. Invece il canarino di Mirta, Ortis, che muore in gabbia come il foscoliano Jacopo, è un ghigno alla condizione umana, e Rasputin, il cagnolino dispotico di Dimitri, rappresentato come uno scarabocchio confuso, ha un nome che ne preannuncia il carattere.

Se nelle tue vignette l’interesse per l’anzianità può essere circoscritto all’aspetto grafico, proprio per la sintesi del medium, qua riesci a costruire personaggi molto dettagliati, proprio grazie al loro linguaggio: un salto enorme dalla macchietta al carattere a tutto tondo.

Alcuni personaggi sono ispirati a persone reali. Ho lavorato a questo libro per due anni: il primo l’ho passato a prendere appunti e a studiare i personaggi, facendo pochissimi bozzetti, “rubando” caratteri da quello che vedevo in giro. Nei primi mesi dell’anno successivo ho scritto la sceneggiatura e poi sono passato ai disegni definitivi. In questi due anni ho fatto sedimentare la storia, proprio per essere sicuro non solo delle parole pronunciate da ogni personaggio, ma anche di certi dettagli d’ambiente, apparentemente impercettibili, come la disposizione delle case attorno all’edificio, le finestre, che hanno tutte le sbarre, come in una prigione etc.

Residenza Arcadia è anche un libro sulla perdita: ogni personaggio è mancate di qualcosa, o perde qualcosa di importante.

Tutti hanno perso qualcosa ma solo uno in particolare, consapevole di quanto ha perso, di quanto ha fatto, per cui ha anche un’idea generale di quello che sta accadendo. Inoltre, anche i momenti di flashback dimostrano come nessuno dei personaggi abbia imparato dal proprio passato; volevo che i personaggi fossero cristallizzati, come travolti da un grosso evento che avesse congelato le loro vite.

Anche il personaggio che ha già vissuto la tragedia dell’oppressore, Mirta, alla quale il sistema ha già tolto tutto, pare non aver del tutto imparato dalla propria esperienza…

È così; si tratta di un libro cinico, spietato. Volevo trasmettere certi aspetti molto bui della società, ancora presenti, con o senza dittatura. Quei meccanismi di cui parlo esistono anche nel nostro paese, forse fanno parte dell’animo umano. “Il mio giardino è il mio giardino, e tu non entri”, e così ci dimentichiamo di coloro che non hanno nessun luogo dove andare, li lasciamo fuori. Nei fatti non è vero che siamo tutti uguali.

La deliziosa palette del tuo libro, colorato con toni pastello dal gusto vintage, è in linea con il contenuto del tuo racconto, ma è anche la stessa che usi normalmente, giusto?

Sì, pensa che ormai si parla del marrone Cuello, un po’ come il rosso Valentino (ride). Erano colori funzionali agli anziani, ma fanno effettivamente parte del mio marchio. Ho un po’ paura a cambiarli.

Diventeremo degli anziani così acidi e insensati?

Spero proprio di no, spero di aver esaurito su carta tutta la negatività di un pessimo invecchiamento nel libro, e di non doverlo sperimentare mai in vita.