Mark Zuckerberg unisce da sempre ambizione e un’attenzione quasi nevrotica alle reazioni degli utenti del suo giocattolo preferito quando introduce novità negli algoritmi che presiedono l’incremento dei suoi Big Data. Per questo, ha intrapreso campagne per combattere le fake news, il razzismo e la xenofobia: cioè quei fattori che potevano inquinare il regolare flusso di dati nel suo social network.

D’altronde è stato lo stesso Zuckerberg che ha lanciato un progetto per lo sviluppo di una comunità globale governata dalle regole del politicamente corretto dove ognuno possa esprimersi in libertà senza tuttavia ledere la dignità di altri. E poco importa se le decisioni di oscurare un account prese da un algoritmo fa sorridere perché qualcuno ha usato a sproposito la parola «negri». Al di là dell’adesione di Zuckerberg a una vision democratica e cosmopolita, quel che conta è che il flusso di dollari nelle casse di Facebook sia costante e che esso è direttamente proporzionale, dicono gli analisti, alla moralità e alla trasparenza con le quali è gestito il social network. Poco importa se dietro le quinte dei data center, i dati individuali sono impacchettati e venduti al miglior offerente.  D’altronde la policy – le regole da sottoscrivere per accedere a Facebook – prevedono infatti che il singolo cede i suoi dati personali – post, foto, video – proprio a Mark Zuckerberg che ha il potere di farne ciò che vuole.

E se negli Stati uniti questo non suscita scandalo, in Europa tutto ciò configura una violazione sia della privacy che della sovranità individuale sulla comunicazione che ha come medium la Rete. Una differenza – legislativa e di cultura giuridica e politica – che è emersa nelle reazioni all’affaire della Cambridge Analytica.

L’Unione europea ha infatti affermato subito che ci sono alcuni diritti individuali che non possono essere sacrificati agli affari, mentre in Inghilterra e Stati uniti l’accento è stato posto sulla «non opportunità» dell’uso di dati individuali venduti e acquistati durante una competizione elettorale o referendaria. Non è tuttavia la prima volta che emerge che in una campagna elettorale statunitense siano stati usati i profiling degli utenti per personalizzare la propaganda politica. Lo hanno fatto in molti candidati, sia democratici che repubblicani. Colpisce semmai che sia stato Trump a farlo, dato che ha sempre indicato nelle imprese di Silicon Valley i prototipi di sentimenti cosmopoliti e per questo antiamericani. Un’ostilità ricambiata da Apple, Google, Facebook e altre major dell’immateriale. Ma in politica tutto è permesso, anche acquistare i dati di cinquanta milioni di americani per una sorta di personalizzazione della campagna elettorale.
Io cedo anche la proprietà sui miei dati personali, ma caro Mark fanne buon uso: è cioè il tradimento del rapporto di fiducia tra utente e impresa che negli Usa ha costituito materia di scandalo.

Scandalo che Facebook ha pagato con una perdita secca in borsa. La frontiera dei Big Data è però un fattore di rischio per la democrazia. Facebook, così come altre imprese della Rete, è sì una impresa, ma anche una vera e propria tecnologia del controllo sociale. L’affaire della Cambridge Analytica pone cioè al centro della scena alcuni aspetti della formazione dell’opinione pubblica, della costruzione del consenso e del rapporto tra old e new media.

La Rete è un bacino pressoché inesauribile dei sentimenti, dei desideri, dei bisogni di uomini e donne. Chi lo controlla ha un potere superiore a quello che possono esercitare Stati nazionali e organismi internazionali. Per questo la concorrenza tra imprese è cosi aspra, perché è quel bacino la materia prima degli affari, che vengono appunti raccolti, elaborati e impacchettati e venduti per fare pubblicità, certo, ma anche per comprendere gli umori, le tensioni, gli stili di vita presenti nella realtà. La formazione dell’opinione pubblica è dunque un’attività economica al pari di altre attività produttive. E che ha un potere di condizionamento dei vecchi media (tv, radio e carta stampata). Facebook, Twitter, Amazon, Apple, Google per non parlare dei cinesi Baidu e Alibaba sono cioè potenze economiche e al tempo stesso potenze politiche.

È infatti in rete che si sta ridisegnando radicalmente il rapporto tra Politico e Economico, con una supremazia del secondo aspetto sul primo. Forse è per questo che finora le reazioni di Mark Zuckerberg sono all’insegna del basso profilo. C’è cioè la possibilità che tutto ciò si trasformi in una tempesta in un bicchier d’acqua. C’è da scommettere che usciranno altri nomi di altri esponenti politici che hanno abusato dei Big Data. Sarebbe tuttavia politicamente rilevante che l’attenzione si spostasse sul complesso intreccio tra come avviene la raccolta dati, la sua elaborazione e riduzione a merce.

Ne uscirebbe un affresco dove consulenti e strateghi per le campagne elettorali oltre a vendere la loro competenza mettono sul mercato una visione del mondo e dei rapporti sociali da sfruttare per organizzare la subalternità dei governati ai governanti. Gli algoritmi infatti non sono mai neutrali, perché sono da sempre piegati a una visione del mondo. La Cambridge Analytica è cioè solo uno dei tasselli di un puzzle che ha preso forma in Rete. È cioè solo un esempio svelato al pubblico di come ormai funzionano i regimi postdemocratici.