A sentire corifei e laudatores del costituendo governo Draghi, cui si è aggregato anche qualche costituzionalista, quel che accade non costituirebbe l’effetto eccezionale di una crisi della democrazia parlamentare innervata sui partiti e più in generale della stessa democrazia costituzionale, ma al contrario la normale applicazione della lettera della Costituzione. Forse non ci si rende conto della conseguenza dirompente che tale tesi comporta: bollare come estranei alla Costituzione tutti i governi che hanno operato nell’Italia repubblicana a differenza dei quattro presieduti da un tecnico, costituiti (o in via di costituzione) dal 1993. Ora, è un pessimo metodo fare ricorso alla sola interpretazione letterale di un testo normativo: lo è per qualsiasi legge, ma a più forte ragione per la Costituzione, che è un testo a maglie larghe contenente i principi fondamentali e le regole essenziali che presiedono al funzionamento della democrazia.

È quindi fondamentale il ricorso all’interpretazione sistematica che deve tenere conto dell’insieme delle disposizioni costituzionali poste alla base della forma di Stato e della forma di governo, senza la quale si potrebbe sostenere che il Presidente della Repubblica alla luce di un’interpretazione letterale dell’art. 87 Cost. è l’effettivo titolare di tutti i poteri più importanti dello Stato. Non è così. Ed è significativo che chi sostiene la tesi dell’inveramento in atto della Costituzione dimentichi completamente il rapporto di fiducia disciplinato dall’art. 94, che qualifica come parlamentare la forma di governo e impone che l’esecutivo nominato dal Capo dello Stato, e che ha giurato nelle sue mani, sia provvisorio e dotato di poteri assai limitati in attesa del voto positivo delle Camere.

La logica della forma di governo e delle disposizioni costituzionali sulla formazione dell’esecutivo richiede che la scelta del Presidente della Repubblica si ponga in sintonia con la composizione politica del Parlamento ai fini della nomina di un governo che possa ottenere la fiducia della maggioranza parlamentare. A ciò servono le consultazioni che sono di regola indispensabili perché il Presidente abbia l’esatto quadro della situazione politico-parlamentare.

Ne deriva che il Presidente del Consiglio già nella fase dell’incarico discuta i lineamenti programmatici del futuro governo con i rappresentanti delle forze politico-parlamentari disponibili a sostenerlo. E va aggiunto che egli, se dirige la politica generale del Governo (art. 95, primo comma) non determina affatto l’indirizzo politico il che spetta all’organo collegiale di governo, come si desume dalla Costituzione ed è stato espressamente affermato nell’art. 2, primo comma, della legge n. 400 del 1988.

Nella Costituzione non c’è neppure scritto che sia il Presidente del Consiglio a presentare alle Camere il programma del Governo, il che può essere ritenuto conforme alla Costituzione solo sulla base di una interpretazione sistematica (fatta propria dalla Corte costituzionale) che lo qualifica come primus inter pares legittimato a esprimere i contenuti espressivi dell’indirizzo politico collegiale.

Anche la scelta dei ministri, che sono nominati dal Capo dello Stato su proposta del Presidente del Consiglio, non può costituire un potere libero in quanto il Presidente del Consiglio non può non tener conto del perimetro della maggioranza parlamentare e delle indicazioni delle forze politiche che la compongono. Tenere conto non significa certo che sia vincolato ai nomi indicati e non possa far valere le sue preferenze (e in questo senso va sicuramente criticata la degenerazione partitica che si è verificata nella prassi), ma sempre con la proposta di ministri che appartengano ai partiti di maggioranza o non siano a questi talmente sgraditi da pregiudicare il voto di fiducia.

Cosa sta avvenendo oggi? Che vi è una sorta di commissariamento della forma di governo parlamentare, che si manifesta con l’esercizio di un potere sostanzialmente personale di scelta sia del programma del futuro governo sia della sua composizione. Si può sostenere che ciò sia necessario in una situazione di emergenza politico-costituzionale come quella delineata dal Presidente Mattarella, che richiede un ruolo più attivo del Capo dello Stato. Ma affermare che questa sia la “normalità” costituzionale equivale a sostenere che vi sia ormai una presunta “Costituzione materiale” che ha soppiantato quella formale trasformando di fatto la forma di governo da parlamentare a presidenziale o semipresidenziale.

Si tratta di una tesi sostenuta in passato, ma che contrasta con le previsioni costituzionali vigenti. E allora se è ciò che si vuole chi lo propone segua la strada maestra della revisione costituzionale in senso presidenzialistico, in modo da consentire di esprimersi a chi intende difendere la Costituzione vigente opponendosi a una deriva plebiscitaria e personalistica particolarmente pericolosa nell’attuale contesto di disfacimento dei soggetti politici.